Consiglio di Stato Sez. II n. 7589 del 29 settembre 2025
Urbanistica.Opere aventi carattere precario
Le opere aventi carattere precario devono essere funzionali a soddisfare una esigenza temporanea destinata a cessare nel tempo, entro cui si realizza l'interesse finale che la medesima era destinata a realizzare; di conseguenza la natura precaria dell'opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione assegnatagli dal costruttore, ma rileva la sua oggettiva idoneità a soddisfare un bisogno non provvisorio. Il carattere precario di un manufatto deve essere valutato non con riferimento al tipo di materiali utilizzati per la sua realizzazione, ma avendo riguardo all'uso cui lo stesso è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria dell'opera, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata. Quindi sono irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole amovibilità, e l’opera deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso. Inoltre, la precarietà non va, peraltro, confusa con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo. In sostanza, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula, infatti, un uso specifico ma temporalmente limitato del bene, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre un idoneo titolo edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale. Da siffatti rilievi consegue che deve essere ribadito il principio, in più occasioni enunciato dalla giurisprudenza di settore che gli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 escludono il rilascio del permesso di costruire solo ed esclusivamente per gli interventi edilizi caratterizzati dalla contingenza e precarietà
Pubblicato il 29/09/2025
N. 07589/2025REG.PROV.COLL.
N. 06094/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6094 del 2022, proposto da
-OMISSIS- s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Anna Maria Pitzolu, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Umberto Garofoli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;
Municipio Roma XIV-Monte Mario, non costituito in giudizio;
nei confronti
Societa' Agricola di Muzio s.r.l., non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 6754/2022, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Viste le memorie delle parti;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;
Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 2 luglio 2025 il Consigliere Annamaria Fasano, e udito per le parti l’avvocato Pitzolu Anna Maria; si dà atto che l’avvocato Umberto Garofoli ha depositato istanza di passaggio in decisione senza discussione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La società -OMISSIS- s.r.l. proponeva ricorso avverso la D.D. CT/1473/2019 della Direzione tecnica del Municipio XIV di Roma Capitale, con la quale si ordinava la rimozione e la demolizione degli interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati in via San Giuseppe da Copertino s.n.c., consistenti nella predisposizione di un impianto di betonaggio e stoccaggio di materiali bituminosi per la produzione e la manutenzione di pavimenti stradali in assenza di titolo abilitante.
La ricorrente riferiva di avere realizzato l’impianto con D.I.A. del 21 luglio 2005 della durata di cinque anni, rinnovata per altri cinque con D.I.A. del 29 luglio 2010, la cui regolarità risultava attestata dalla competente autorità comunale con nota prot. n. 52824 del 2010.
Illustrava di avere avviato l’iter istruttorio per il rilascio dell’AUA che si concludeva, il 9 novembre 2015, con l’emanazione della determinazione dirigenziale R.U. 5134 con cui il competente Dipartimento della Città Metropolitana di Roma Capitale adottava, in favore della ricorrente, l’AUA ‘per il rinnovo dell’autorizzazione n. 4906 del 06/08/2012 per lo scarico di acque di prima pioggia in corpo idrico superficiale denominato <fosso degli Ebrei>’.
Così acquisita l’autorizzazione unica ambientale per lo svolgimento delle varie attività inerenti al ciclo produttivo dell’impianto in questione, la ricorrente, dapprima con nota redatta nel febbraio 2016 e, in seguito, con missiva del 1 agosto 2016, rassicurava l’Ente municipale circa la propria volontà di smontare e trasferire l’impianto su un’altra area, informando anche di avere individuato un terreno su cui localizzare lo stabilimento in questione.
A parere della ricorrente, la manifestazione di volontà non veniva riscontrata da Roma Capitale che, con D.D. n. 1255 del 2016 ordinava l’immediata sospensione dei lavori, intimazione rimasta tuttavia priva di seguito poiché non seguita, entro 45 giorni, dall’emanazione del provvedimento repressivo, come riconosciuto dal T.A.R. per il Lazio con sentenza 362 del 2017, che dichiarava inammissibile il relativo ricorso proposto dalla -OMISSIS- s.r.l.
A seguito di contatti intercorsi con la società, il Municipio XIV, in accoglimento di apposito atto di impegno, acconsentiva al progetto di dismissione dell’impianto di betonaggio oggetto del gravame, prevedendo, quale termine di ultimazione dei lavori, il 1 settembre 2018, a condizione che la ricorrente sottoscrivesse apposita polizza fideiussoria a garanzia dell’esecuzione delle opere di rimozione e informasse, con l’invio di periodiche comunicazioni, sugli stati di avanzamento di ciascuna delle cinque fasi di lavoro previste nel cronogramma concordato.
La società chiedeva altre proroghe per l’acquisizione delle autorizzazioni ambientali, che venivano accordate dall’Amministrazione, fino al 2019, quando con nota del 27 settembre chiedeva una ulteriore proroga della dismissione dell’impianto, motivata dall’esigenza di reperire un nuovo sito per la delocalizzazione dello stesso, e per munirsi, per la nuova area, di VIA e nulla osta ambientale.
L’istanza non riceveva riscontro e, in data 14 ottobre 2019, l’Amministrazione si determinava a notificare la determinazione dirigenziale gravata con il ricorso introduttivo del presente giudizio.
La ricorrente lamentava la violazione dei principi di eguaglianza, imparzialità e buon andamento, in quanto con il provvedimento impugnato Roma Capitale aveva preteso di addossare i ritardi nella definizione dell’iter autorizzatorio del nuovo impianto, i quali, invece, erano imputabili ad altre amministrazioni. Inoltre, denunciava l’erroneità dei presupposti normativi invocati da Roma Capitale, i quali contestavano la realizzazione di un intervento di ristrutturazione edilizia non preceduta dalla emanazione del permesso di costruire, senza considerare che l’opera in questione, un impianto temporaneo per il trattamento dei conglomerati bituminosi, non determinava una permanente trasformazione edilizia del territorio e, in quanto tale, non era soggetto a permesso di costruire, con conseguente illegittimità dell’ ordine di demolizione. Deduceva, altresì, la violazione delle garanzie partecipative, e il fatto che il termine assegnato per la rimozione dell’impianto, di soli trenta giorni, era incongruo rispetto ai tempi necessari per conseguire gli assensi necessari per la delocalizzazione e per avanzare un’istanza di permesso di costruire in sanatoria.
Con ricorso per motivi aggiunti, la società impugnava la nota prot. n. CT-44015 del 2021, lamentando che Roma Capitale aveva errato nel ritenere la richiesta di proroga del 17 settembre 2018 motivata esclusivamente in ragione di avversità meteorologiche verificatesi nel corso dei mesi invernali e degli ingenti impegni lavorativi della ricorrente, in quanto, a quella data, risultavano già dismesse le zone A, B e C dell’impianto, mentre per le restanti zone D,E,F e G il ritardo era da addebitare esclusivamente al mancato rilascio delle autorizzazioni occorrenti alla delocalizzazione dell’impianto sul nuovo sito. Inoltre, la localizzazione dell’impianto in questione era conforme alle prescrizioni del P.R.G. e il suo carattere temporaneo era da riconnettere alle attività di recupero dei rifiuti bituminosi ivi espletata. Veniva impugnata anche la nota prot. n. CT-118087 del 3 novembre 2021, con cui Roma Capitale aveva rappresentato che l’emissione della determinazione dirigenziale recante ingiunzione a demolire rep. n. CT/1473 prot. n. 119428 del 2019 costituiva “implicita valutazione di rigetto dell’istanza di proroga presentata, superata dal provvedimento espresso”, riproponendo le medesime censure illustrate nel ricorso introduttivo.
2. Il T.A.R. per il Lazio, con sentenza n. 6754 del 2022, respingeva il ricorso.
3. Con atto di appello, notificato nei termini e nelle forme di rito, la Schiavo s.r.l. ha impugnato la suddetta pronuncia, chiedendone la riforma sulla base delle seguenti censure: “A) Sul punto 8.2 della sentenza – Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. in relazione all’art. 269, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 e agli artt. 14 e ss. della legge n. 241/1990 in materia di conferenza dei servizi – Errore sui presupposti di fatto; B) Sul punto 8.3. della sentenza – Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 269, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 14 e ss. della legge n. 241/1990 in materia di conferenza dei servizi – Violazione degli artt. 3, 6 e 10 del d.P.R. n. 380/2001 – Errore sui presupposti di fatto; C) Sul punto 8.4. della sentenza – Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 269, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 14 e ss. della legge n. 241/1990 in materia di conferenza dei servizi – Violazione degli artt. 3, 6, 10, 37 e 38 del d.P.R. n. 380/2001 – Errore sui presupposti di fatto anche in relazione all’art. 6, comma 5, delle NTA del PRG di Roma Capitale; D) Omessa decisione sulla violazione degli artt. 7 – 21 nonies legge n. 241/90 – Eccesso di potere per violazione del principio del giusto procedimento”.
4. Roma Capitale si è costituita in resistenza, concludendo per il rigetto del gravame.
5. Con memoria depositata in data 27 maggio 2025, l’appellante ha insistito per il rinvio della trattazione dell’appello a data successiva al periodo feriale, al fine di consentire il completamento del procedimento di autorizzazione alla delocalizzazione dell’impianto oggetto del giudizio.
6. Le parti, con rispettive memorie, hanno precisato le proprie difese.
7. All’udienza straordinaria del 2 luglio 2025, la causa è stata assunta in decisione.
DIRITTO
8. Il Collegio, preliminarmente, respinge l’istanza di differimento della trattazione del ricorso, atteso che trattasi di appello da definire in udienza straordinaria di smaltimento con le tempistiche imposte dalla normativa di settore, e che il completamento del procedimento di autorizzazione alla delocalizzazione dell’impianto oggetto del presente giudizio non assume rilievo ai fini della definizione della controversia in esame.
9. Con il primo mezzo, l’appellante censura il punto 8.2 della sentenza impugnata, assumendo che il ragionamento del Collegio non sarebbe convincente, non solo perché si fonda su una mera clausola dal contenuto generico riportata nel provvedimento di AUA, ma soprattutto perché appare in contrasto con i principi di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa e con la normativa di riferimento. Contrariamente a quanto sostenuto nella decisione, l’affidamento della ricorrente sul regolare esercizio dell’attività sulla base dell’AUA del 2015 doveva ritenersi legittimo e meritevole di tutela, poiché la richiesta di AUA era preordinata ad assicurare il regolare esercizio dell’attività di recupero, a prescindere dall’esistenza ed efficacia delle DIA, alla quale il T.A.R. ha fatto riferimento ritenendola conosciuta dalla società fin dal momento dell’acquisto del bene. La motivazione resa dal Giudice di prime cure sarebbe incongrua e sostanzialmente fondata su una clausola di stile contenuta nella scrittura privata di compravendita come ‘visto e piaciuto’, oltre che su presupposizioni in contrasto con le risultanze documentali.
10. Con il secondo motivo di appello, si censura il punto 8.3. della sentenza impugnata, inerente al diniego di proroga, denunciando l’erroneità delle argomentazioni del Collegio di primo grado fondate sulla persistenza abusiva dell’impianto e sull’assenza di norme che avrebbero consentito la proroga della dismissione oltre il limite di 120 giorni previsto dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001. L’esigenza di esercitare l’attività di recupero senza soluzione di continuità costituiva, invece, la condizione alla quale era subordinato l’impegno dell’impresa a delocalizzare l’impianto sulla base degli accordi intercorsi con il Municipio. L’appellante deduce che non sussisteva alcun interesse a delocalizzare l’impianto e men che mai la Società era consapevole di una simile esigenza sin dal momento dell’acquisizione nel 2011, come invece si sostiene in sentenza, fermo restando che si era prodigata a richiedere l’AUA subito dopo l’acquisto. Quanto alla presunta tardività della richiesta di proroga del 27 settembre 2019, la ricorrente sottolinea che la necessità di modificare l’area di sedime era stata resa necessaria dai ritardi della stessa Amministrazione capitolina nell’approvazione dello strumento urbanistico attuativo su detta area.
11. Con il terzo mezzo, si censura il punto 8.4 della pronuncia, in quanto la decisione si fonderebbe erroneamente sulla natura temporanea dell’impianto in relazione alle esigenze dichiarate nella DIA originarie, lamentando che il T.A.R. erroneamente affermerebbe che il sito: ‘ricade nel sistema ambientale agro romano destinato ad attività produttive agricole e che presenta valori ambientali essenziali per il mantenimento dei cicli ecologici’. La ricorrente deduce invece che trattasi di area non interessata da vincoli e che l’art. 6, comma 5, delle Norme di attuazione del Piano Regolatore Generale vigente, approvato con delibera del Consiglio comunale n. 33 del 2003, prevederebbe che, indipendentemente dalla collocazione dell’area edificata in zona con specifiche destinazioni d’uso, sono fatte salve le destinazioni d’uso legittimamente in atto alla data di adozione del PRG; inoltre, stante la carenza di aree industriali idonee nel territorio romano, gli impianti di recupero sono collocati in aree agricole analoghe a quella di San Giuseppe da Copertino, tramite una variante ex art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006. La società afferma che non si ritiene che la considerazione del Giudice di prime cure, peraltro contestata, possa assumere rilievo al fine di stabilire la temporaneità o meno dell’impianto. Nella specie, dovrebbero essere applicate le sanzioni pecuniarie, in luogo della sanzione demolitoria, posto che la sanzione pecuniaria, ai sensi degli artt. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, troverebbe applicazione anche in caso di abuso inerente una nuova costruzione.
12. Con la quarta doglianza, l’appellante denuncia un vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata, in quanto il T.A.R. non avrebbe considerato e valutato gli argomenti inerenti l’omessa comunicazione di avvio del procedimento prevista dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990, la quale, nel caso di specie, non sarebbe stata assolta. La ricorrente sostiene che è stata omessa ogni valutazione sulla contestazione inerente la violazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, fondata sulla considerazione che il provvedimento adottato costituirebbe di fatto un annullamento delle autorizzazioni rilasciate in precedenza dalla stessa Amministrazione e, segnatamente, dell’AUA.
13. Le critiche, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione logica, non possono trovare accoglimento.
13.1. La giurisprudenza prevalente, dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, ritiene che le opere aventi carattere precario devono essere funzionali a soddisfare una esigenza temporanea destinata a cessare nel tempo, entro cui si realizza l'interesse finale che la medesima era destinata a realizzare; di conseguenza la natura precaria dell'opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione assegnatagli dal costruttore, ma rileva la sua oggettiva idoneità a soddisfare un bisogno non provvisorio (Cons. Stato, n. 7999 del 2023; id. Cons. Stato, n. 6768 del 2020).
Il carattere precario di un manufatto deve essere valutato non con riferimento al tipo di materiali utilizzati per la sua realizzazione, ma avendo riguardo all'uso cui lo stesso è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria dell'opera, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata. Quindi sono irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole amovibilità, e l’opera deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso. Inoltre, la precarietà non va, peraltro, confusa con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
In sostanza, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula, infatti, un uso specifico ma temporalmente limitato del bene, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre un idoneo titolo edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale.
Da siffatti rilievi consegue che deve essere ribadito il principio, in più occasioni enunciato dalla giurisprudenza di settore che gli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 escludono il rilascio del permesso di costruire solo ed esclusivamente per gli interventi edilizi caratterizzati dalla contingenza e precarietà (Cons. Stato n. 1239 del 2020).
Nella specie, tali caratteristiche non ricorrono.
Invero, il T.A.R. ha correttamente richiamato i suddetti principi, dando rilievo al fatto che l’art. 10 del d.l. n. 76 del 2020, convertito con modificazioni in legge n. 120 del 2020 ha chiarito che non possono essere considerate alla stregua di interventi di nuova costruzione tutte le opere stagionali e “quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingibili e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale” (art. 6, comma 1, lett. e-bis del d.P.R. n. 380 del 2001).
Nella specie, dalla documentazione versata in atti, si evince che l’impianto in esame è stato installato dal dante causa della ricorrente per finalità temporanee, trattandosi di un ‘impianto di betonaggio a carattere provvisorio a servizio del cantiere per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare’, per la durata di anni cinque.
Successivamente, con DIA prot. n. 41259 del 2020, il dante causa ha richiesto il rinnovo per ulteriori cinque anni del titolo abilitativo, prestando altresì idonea garanzia per gli adempimenti di smontaggio e ripristino dei luoghi.
Ne consegue che, fin dall’inizio, era chiaro il carattere temporaneo dell’impianto, ma soprattutto, diversamente da quanto sostenuto nel gravame, era chiaro all’appellante che il suddetto impianto assumeva una funzione precaria e limitata nel tempo solo a servizio del cantiere per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare.
Tanto emerge dalla scrittura privata autenticata del 23 febbraio 2011, con la quale l’appellante ha provveduto all’acquisto dell’impianto, dalla stessa sottoscritta anche con specifico riferimento alla clausola ‘come visto e piaciuto nello stato in cui si trova’, la quale certamente non assume, come pretende la ricorrente, la funzione di clausola di stile.
Con la sottoscrizione della predetta clausola, l’acquirente assume di avere verificato condizioni e proprietà del bene compravenduto, avendo indagato le caratteristiche dello stesso, accettandole, e rinunciando a future azioni e contestazioni basate sulla presenza di vizi del bene (Corte di Cassazione, n. 278 del 2023).
E’ stato precisato, avuto riguardo alla qualificazione della suddetta clausola, che il giudice di merito deve presumere che la stessa sia stata oggetto di volontà negoziale, sicché deve interpretarla in relazione al contesto (art. 1343 c.c.), per consentire alla stessa di avere l’effetto per la quale è predisposta (art. 1367 c.c.). In assenza di contrari, specifici, elementi, che nel caso di specie non risultano ravvisabili, non può dunque qualificarsi come clausola di stile quella con cui la parte dichiari l’accettazione dell’immobile nello stato di fatto e ‘di diritto’, come ‘visto e piaciuto’, attesa la specificità ed univocità della stessa, che dà atto di una attività di presa visione del bene e di accettazione dello stesso, all’esito della verifica.
Ne deriva che la società -OMISSIS- s.r.l., al momento dell’acquisto del bene (nel 2011), era consapevole del carattere precario del cantiere e della non idoneità del relativo titolo abilitante con riferimento alla regolarità edilizio urbanistica. Invero, la stessa ricorrente ha provveduto, sin dal 2016, a rintracciare un nuovo sito idoneo ad accogliere l’impianto in questione.
Si deve, quindi, concordare con gli esiti argomentativi sostenuti nella sentenza impugnata, ossia che la società -OMISSIS- s.r.l. era consapevole al momento dell’acquisto dell’impianto, avvenuto del 2011, del carattere temporaneo dell’abilitazione edilizia, con la conseguenza che nessun legittimo affidamento può essere riconosciuto in ordine alla stabilità del titolo.
13.2. Anche le deduzioni difensive sollevate con riferimento al rilascio della autorizzazione unica ambientale nel 2015 (AUA) sono infondate, atteso che, come sostiene il T.A.R., l’autorizzazione attiene ad aspetti che riguardano lo scarico delle acque e il trattamento dei rifiuti e non ovviamente la conformità urbanistica dell’area.
Inoltre, non si può non rilevare che tutti i titoli edilizi rilasciati per l’impianto in questione erano da considerarsi decaduti al momento della emissione del provvedimento impugnato, in questo rendendo legittimo il provvedimento di ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Né si può predicare l’illegittimità del diniego di proroga in quanto, nessuna delle disposizioni di settore, ossia il d.P.R. n. 380 del 2001, né la legge regionale Lazio n. 15 del 2008, consentono la proroga alla validità dei titoli edilizi temporanei, dovendo al contrario rilevarsi che il termine per intervenire per gli abusi edilizi è fissato dalla legge in 120 giorni, al massimo entro il termine entro cui il responsabile dell’abuso deve ottemperare all’ordine di demolizione.
Inoltre, l’art. 6, comma 1, lettera e) bis del d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che: “le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purchè destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale”
13.3. La società deduce argomentazioni difensive prive di rilievo in ordine all’assunta tardiva attività dell’Amministrazione per il rilascio delle autorizzazioni necessarie per l’apertura dei nuovi impianti, posto che, stante la chiara evidenza della conoscenza della precarietà dei titoli, avrebbe dovuto attivarsi per tempo, e non attendere il 1 agosto 2016 per avviare la delocalizzazione dell’impianto assicurando l’Amministrazione del fatto di ‘avere individuato un altro terreno a ciò destinabile’, pur non sussistendo invece alcun titolo legittimante dal punto di vista ambientale. Solo tre giorni prima della scadenza della proroga fino al 30 settembre 2019, la ricorrente ha chiesto una ulteriore proroga, pur essendo a conoscenza dell’inidoneità del sito individuato fin dal settembre 2018.
Come argomenta Roma Capitale con memoria, dalla documentazione in atti risulta che il progetto della ricorrente è stato presentato il 18 maggio 2017, con nota prot. CT/45029 e che l’Amministrazione il 10 ottobre 2018, con nota prot. 120122, ha accordato quale termine ultimo per le operazioni di dismissione dell’impianto il 30 settembre 2019, assegnando in effetti un ampio spazio temporale.
Con nota del 2 marzo 2020, CT/25311, il Municipio XIV – Monte Mario – Direzione Tecnica – Servizio I – Ufficio Disciplina Edilizia – ha poi ulteriormente chiarito che l’unica richiesta di proroga per lo svolgimento delle operazioni è pervenuta il 27 settembre 2019, ossia, come si è già detto, tre giorni prima del termine concesso. Pertanto, si deve ritenere che ragionevolmente la presentazione della richiesta di ulteriore proroga in data 27 settembre 2019 non poteva valere ad evitare la decadenza della proroga originariamente concessa, in quanto presentata nell’immediatezza della scadenza di tale termine.
Appare, pertanto, evidente l’inconsistenza delle ragioni giustificative addotte dalla società appellante nei mezzi, non potendosi ravvisare alcuna ragione idonea a impedire la rimozione di opere mantenute, da anni, su un sito in assenza di idoneo titolo abilitativo.
In definitiva, il Collegio osserva che, in ragione di siffatti rilievi, anche il diniego di istanza di proroga di cui alla nota del 3 novembre 2021 è un provvedimento legittimo, tenuto conto della chiara abusività dell’impianto.
13.4. Ne consegue che le critiche sollevate con riferimento all’ordine di rimozione sono infondate, atteso che, ritenuta la non precarietà dell’impianto di lavorazione di conglomerati bituminosi, e considerato che il sito ricade nel sistema ambientale ‘agro romano’, destinato ad attività produttive agricole, l’ordine di riduzione in pristino è legittimo. Nella specie, non possono trovare applicazione gli artt. 37 e 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, posto che trattasi di opere che avrebbero necessitato di permesso di costruire, non integrando una ‘ristrutturazione’, e dovendo, al contrario, essere rimosse, pertanto va ribadito quanto precisato dal T.A.R., ossia che: “in alcun modo l’amministrazione avrebbe potuto, in luogo della sanzione ripristinatoria, irrogare una sanzione pecuniaria e, in tal modo, mantenere l’opera sul suolo in questione”.
13.5. Va, infine, respinto l’ultimo mezzo, con il quale si denuncia una omessa pronuncia della sentenza impugnata in ordine alla violazione delle garanzie partecipative, dovendosi rammentare che secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi: “ L'omessa comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, non inficia la legittimità del provvedimento finale in applicazione dell'art. 21-octies, comma 2, della medesima legge, laddove l'Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto esser diverso da quello in concreto adottato; attesa peraltro la natura di prova diabolica della dimostrazione richiesta all'Amministrazione, essa di traduce nell'onere, per il privato, di dimostrare che, ove fosse stato reso edotto dell'avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da orientare in modo diverso le scelte dell'amministrazione procedente; in caso contrario l'omessa comunicazione non inficia il provvedimento finale” (Cons. Stato, n. 3115 del 2019; id n. 2287 del 2025).
A tale onere processuale, l’appellante non ha ottemperato.
Inoltre, va rammentato che il provvedimento di demolizione, avendo natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, non essendo prevista la possibilità per l’Amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene (Cons. Stato, n. 1281 del 2019; id. n. 5317 del 2019; id. n. 4704 del 2020).
14. In definitiva, l’appello va respinto ed ogni altra questione dedotta dalle parti deve ritenersi assorbita, atteso che l’eventuale esame della stessa non determinerebbe una soluzione di segno contrario.
15. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di lite a favore di Roma Capitale, che liquida in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2025 tenuta da remoto ai sensi dell’art. 17, comma 6, d.l. 9.6.2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6.8.2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati:
Giovanni Sabbato, Presidente FF
Carmelina Addesso, Consigliere
Alessandro Enrico Basilico, Consigliere
Ugo De Carlo, Consigliere
Annamaria Fasano, Consigliere, Estensore