Consiglio di Stato Sez. II n. 7889 del 8 ottobre 2025
Urbanistica.Destinazione delle aree effettuata in sede di pianificazione urbanistica e destinazione d’uso degli immobili

La destinazione delle aree effettuata in sede di pianificazione urbanistica non deve essere confusa con la destinazione d’uso degli immobili, di cui all’art. 23-ter DPR 6 giugno 2001 n. 380, dedicato al ‘mutamento d’uso urbanisticamente rilevante’ di un singolo immobile o di una singola unità immobiliare. In questo caso, il mutamento di destinazione, con o senza opere, inerisce (comma 1) a ‘ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria ... tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale’, come indicate dal medesimo comma. Ciò che costituisce oggetto di mutamento, nella previsione della norma, è il singolo immobile, inteso come fabbricato preesistente e con destinazione già impressa, o una frazione del medesimo (unità immobiliare), laddove il mutamento di destinazione dell’area oggetto del piano regolatore o di una sua variante afferisce al livello urbanistico della pianificazione generale del territorio, rientrante nelle competenze proprie dell’Ente locale, nel quadro della legislazione nazionale e regionale, e può essere realizzato solo attraverso l’adozione di strumenti urbanistici. Nella previsione del citato art. 23-ter DPR n. 380/2001, la destinazione d’uso non riguarda il territorio, ma i beni che su quel territorio si collocano, e non descrive uno stato ontologico o deontologico di un’area del territorio comunale, cui si riconnette una certa disciplina conformativa del diritto dominicale per orientare le eventuali future modifiche dell’assetto urbanistico di quel luogo nell’ambito di una visione globale e funzionale del territorio comunale, ma l’uso che di quel determinato bene si sta attuando e, dunque, per dirla altrimenti, la funzione a cui esso è concretamente adibito. Ciò comporta che la considerazione ed unificazione delle categorie funzionali di cui al citato art. 23-ter vale ai soli fini della ‘insediabilità’ e quindi della ammissibilità di un determinato intervento ma non ai fini dell’equivalenza dell’intervento stesso dal punto di vista del carico urbanistico e dunque del relativo calcolo degli standard ai sensi del d.m. n. 1444 del 1968 e delle discipline di settore.

Pubblicato il 08/10/2025

N. 07889/2025REG.PROV.COLL.

N. 09632/2024 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9632 del 2024, proposto dalla società Movi.Mac. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Andrea Orefice, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

il Comune di Casoria, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Emma Galiero, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

delle società La Marina Immobiliare s.r.l., AF Immobiliare & Investment s.r.l. e V.G. Capital, non costituite in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. II, n. 7008/2024, pubblicata il 12 dicembre 2024, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Casoria;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 settembre 2025 il consigliere Giancarlo Carmelo Pezzuto e uditi per le parti gli avvocati Alessandro Avagliano, in delega dell’avvocato Andrea Orefice, ed Emma Galiero;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. La società Movi.Mac. s.r.l. (di seguito anche la società), operante nel settore della vendita di macchine edili, movimenti terra e relativi ricambi, impugna la sentenza in epigrafe, con la quale il T.a.r. per la Campania ha respinto il ricorso dalla medesima proposto avverso la dichiarazione di improcedibilità di una SCIA – ed il conseguente ordine di demolizione e ripristino – emessi dal Comune di Casoria in relazione ad una recinzione realizzata all’interno di un’area di proprietà dell’appellante, parte di un più ampio piazzale che la medesima utilizza come deposito per la propria attività commerciale.

2. Ai fini della ricostruzione della vicenda giova premettere che la società aveva in un primo momento presentato la SCIA n. 59992/2023 avente ad oggetto “delimitazione e confinamento della superficie del lotto mediante l’apposizione di blocchi in cemento prefabbricati senza opere di fondazione”, che il Comune di Casoria aveva dichiarato improcedibile in quanto ritenuta in contrasto con l’art. 106 del RUEC, laddove al comma 3, lett. b), si prevede che “le recinzioni di nuova costruzione tra le proprietà o verso spazi pubblici possono essere realizzate con muretto o cordolo di altezza massima di 0,80 m sovrastato da reti, cancellate o siepi per un’altezza massima complessiva di 2,5 m (…)”.

Alla luce di ciò la società presentava una ulteriore SCIA ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, assunta al prot. n. 72859 del 30 ottobre 2023 ed avente ad oggetto le medesime opere di recinzione asseritamente conformi alle previsioni del regolamento edilizio, prevedendo l’installazione di elementi prefabbricati sormontati da barriere zincate di altezza complessiva inferiore a 2,5 m, in continuità con le recinzioni già esistenti.

Il Comune dichiarava parimenti improcedibile anche detta seconda SCIA con nota n. 2023/78299 del 23 novembre 2023 (che l’appellante sostiene di non aver ricevuto), rilevando, in particolare, l’illegittimità delle opere in quanto i manufatti avrebbero dovuto essere realizzati nel rispetto dei rapporti di copertura previsti dalle NTA del PRG all’epoca vigente e le aree scoperte avrebbero dovuto essere destinate in parte a verde e parcheggio e in parte ad attività di tipo collettivo nel rispetto del d.m. n. 1444/1968; inoltre, il frazionamento dell’area che la società avrebbe inteso sanare avrebbe comportato la variazione di destinazione dell’area, in violazione dei criteri di rispetto di spazi minimi a servizio delle attività e della collettività rimuovendo il regime di pertinenzialità del piazzale rispetto ai manufatti sul medesimo insistenti, senza peraltro tener conto dell’assoggettamento ad uso pubblico.

Con successiva ordinanza di demolizione n. 19/2023 del 13 dicembre 2023 l’ente locale disponeva, altresì, la rimozione del manufatto e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.

3. Di qui il ricorso in primo grado, che il T.a.r. respingeva ritenendo, in sintesi, che:

- la recinzione avrebbe sottratto l’area alla destinazione urbanistica risultante dall’originaria concessione edilizia n. 112/1984, che la destinava in parte a verde e parcheggio e in parte a “standard” per attività di tipo collettivo, per cui il Comune non avrebbe contestato il frazionamento sul piano catastale ma l’uso del piazzale così recintato preordinato alla mutazione della destinazione d’uso che la società intendeva effettuare tramite la SCIA;

- l’Amministrazione non avrebbe consumato il suo potere di negare gli effetti della SCIA essendosi limitata sul titolo precedente a rilevare il solo superamento delle altezze massime previste, e ciò in quanto ben possono essere emessi più atti in successione purché nei termini e secondo le modalità ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990;

- la motivazione del provvedimento che ha dichiarato l’improcedibilità della (seconda) SCIA sarebbe adeguata, essendo stata richiamata la destinazione impressa all’area con la concessione edilizia n. 112/1984, che la società non ha contestato e che comunque non può non conoscere essendo proprietaria dell’area;

- l’art. 10-bis della legge n. 241/1990 non si applica ai provvedimenti dichiarativi dell’inefficacia della SCIA, che non sono dinieghi adottati su istanza di parte, bensì provvedimenti conseguenti alle verifiche previste dall’art. 19, commi 3 e 4, della legge n. 241/1990, che si attivano d’ufficio;

- sarebbero conseguentemente infondate le censure concernenti l’asserita illegittimità derivata dell’ordinanza di demolizione anche in ragione del fatto che le opere oggetto della SCIA sarebbero in contrasto con la disciplina urbanistica dell’area, il che, in base alla giurisprudenza, impone l’irrogazione della sanzione demolitoria;

- non sarebbe causa di illegittimità dell’ordine di demolizione l’omessa notifica ad eventuali altri soggetti responsabili, che può comunque avvenire con separati atti, il che vale a maggior ragione nel caso di specie, trattandosi di una SCIA presentata nell’interesse della ricorrente e non dei precedenti proprietari.

4. Avverso tale pronuncia insorge la società, la quale premette che il piazzale sarebbe stato oggetto nel tempo di vari frazionamenti da parte dei proprietari succedutisi nel tempo mai contestati dal Comune e che non sarebbe stata posta in essere alcuna modifica della destinazione d’uso, né la recinzione inciderebbe sul regime di pertinenzialità del piazzale degli altri edifici esistenti

Ciò premesso, l’appellante deduce i motivi di seguito riepilogati (vale evidenziare, con una numerazione che, per esigenze di sintesi espositiva, non coincide perfettamente con quella utilizzata nell’atto di appello):

I. il T.a.r. non avrebbe considerato che, diversamente da quanto sostenuto dal Comune e come asseritamente dimostrato in primo grado, in base agli originari titoli edilizi del 1968 e del 1984 l’area avrebbe già avuto generica destinazione a “piazzale” e, in ogni caso, non risulterebbe nella concessione edilizia n. 112/1984 che l’area fosse destinata in parte a verde e parcheggio e in parte a standard (per attività di tipo collettivo), per cui non vi sarebbe alcuna variazione di destinazione d’uso;

II. con la SCIA in questione la società non intendeva “sanare” un mutamento della destinazione d’uso, come ritenuto in primo grado, intendendo piuttosto continuare a utilizzare l’area come deposito, per cui l’intervento in questione, riconducibile al novero della manutenzione straordinaria, sarebbe stato soggetto unicamente alla presentazione della SCIA, trattandosi della mera delimitazione fisica di un’area già frazionata catastalmente dai precedenti proprietari;

III. il Comune avrebbe per la prima volta contestato “dopo venti anni” il ritenuto cambio di destinazione d’uso dell’area collegandolo alla concessione n. 112/1984 senza motivare il mutamento del proprio orientamento; il giudice di prime cure non avrebbe considerato che, laddove la concessione edilizia n. 112/1984 avesse effettivamente integrato, come sostenuto dal Comune, una variazione di destinazione d’uso dell’area, detto mutamento si sarebbe in ipotesi realizzato già con la vendita frazionata delle singole porzioni, avvenuta a partire dal 2010, a prescindere dalla realizzazione o meno di nuove opere; l’UTC, inoltre, non avrebbe indicato nel provvedimento quali norme urbanistiche sarebbero state violate; ed ancora, non corrisponderebbe al vero che prima della realizzazione dei manufatti in questione sarebbero stati operati esclusivamente frazionamenti catastali, in quanto, come risulterebbe dalla perizia depositata in primo grado, negli anni sarebbero state eseguite altre opere finalizzate all’utilizzo separato delle singole porzioni dell’area, e ciò in asserita assenza di contestazioni da parte dell’UTC medesimo; nel solo caso della Movi.Mac. s.r.l., quindi, l’ente locale avrebbe ritenuto integrarsi un illegittimo mutamento dell’originaria destinazione d’uso;

IV. avrebbe errato il primo giudice nel non considerare che il Comune non aveva indicato le norme urbanistiche locali in contrasto con l’intervento oggetto della SCIA, così integrando un difetto di motivazione del provvedimento originariamente avversato, e ciò anche in considerazione del fatto che in primo grado la società aveva depositato i grafici allegati alla concessione edilizia n. 112/1984 dai quali risulterebbe l’assenza di vincoli di destinazione dell’area, circostanza che, diversamente da quanto ritenuto dal T.a.r., la società avrebbe peraltro specificamente contestato in primo grado depositando anche i grafici allegati alla concessione edilizia n. 112/1984 dai quali emergerebbe l’assenza di vincoli riferiti alla porzione immobiliare oggetto della controversia;

V. il T.a.r. avrebbe errato nel considerare infondata la doglianza della mancata applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, in considerazione del contributo partecipativo che la società avrebbe potuto fornire dal momento che la pretesa destinazione a “standard” del piazzale in questione non avrebbe trovato riscontro negli atti esibiti dagli Uffici comunali in occasione dell’accesso effettuato sui titoli originari; in tal caso la società avrebbe asseritamente potuto osservare che; - l’intervento oggetto della SCIA non avrebbe previsto alcun cambio di destinazione d’uso dell’area; - non sarebbe stata realizzata alcuna nuova volumetria non incidendosi, quindi, sul regime di pertinenzialità del piazzale; - il frazionamento sarebbe coerente con l’utilizzo di una porzione di un complesso produttivo realizzato in epoca antecedente alla c.d. “deindustrializzazione”; - il Comune aveva dichiarato improcedibile la prima SCIA senza fare riferimento alla presunta illegittimità del frazionamento realizzato dalle danti causa, né “fantomatici mutamenti di destinazione d’uso del piazzale”; - la porzione di proprietà della ricorrente farebbe parte di un più vasto piazzale di oltre 27.000 mq. parzialmente coperto da manufatti di varia tipologia e l’ente locale non avrebbe mai mosso obiezioni al riguardo;

VI. con riferimento all’ordinanza di demolizione parimenti avversata in primo grado il T.a.r. si sarebbe limitato a richiamare le ragioni esposte con riferimento all’atto presupposto; il primo giudice non avrebbe, inoltre, considerato che in primo grado la società aveva anche dedotto di non aver realizzato alcuna trasformazione abusiva essendosi limitata ad installare elementi prefabbricati alti circa un metro sul confine della particella di terreno esistente dal 2012 ed acquisita in proprietà nel 2023; viene, quindi, ribadito che non vi sarebbe stato alcun mutamento della destinazione d’uso dell’area;

VII. il giudice di prime cure avrebbe erroneamente concluso per la legittimità dell’ordine ripristinatorio muovendo dal contestato cambio di destinazione d’uso dell’area; nel caso di specie, tuttavia, non ne sussisterebbero i presupposti dal momento che la porzione di piazzale in questione avrebbe sempre avuto una comune destinazione produttiva conforme all’uso come deposito per il quale l’appellante l’aveva acquistata;

VIII. il primo giudice non si sarebbe specificamente espresso, sul piano formale, in ordine alla censura con la quale si contestava che il Comune avrebbe dovuto semmai applicare la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, prevista per l’ipotesi di realizzazione sine titulo di opere assoggettate al regime della SCIA;

IX. il T.a.r. non avrebbe scrutinato la censura relativa alla contestata omessa comunicazione di avvio del procedimento, che viene riproposta in sede di appello, per cui vi sarebbe violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

X. il T.a.r. avrebbe errato nel non considerare che l’ordinanza di demolizione non era stata indirizzata anche ai precedenti proprietari dell’area, indicati come i “veri autori dell’abuso”, posto che senza la loro collaborazione non sarebbe stato asseritamente possibile il frazionamento né sarebbe possibile rispristinare lo stato dei luoghi; vi sarebbe inoltre disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri proprietari di porzioni dell’area, i quali avrebbero a loro volta destinato parti del piazzale a spazi pertinenziali alle rispettive attività sottraendoli ai contestati usi collettivi.

5. Il Comune di Casoria, con un’articolata memoria, confuta le tesi di parte avversaria ed insiste per il rigetto dell’appello.

In vista dell’udienza la società ha a sua volta depositato memoria in data 30 luglio 2025, cui l’ente locale intimato ha replicato in data 8 settembre 2025.

6. Con ordinanza n. 129/2025 la sezione ha accolto l’istanza cautelare incidentalmente prodotta dall’appellante ritenendo sussistente il periculum in mora, avendo la società adeguatamente dimostrato di aver effettuato ingenti investimenti nell’acquisto di mezzi e materiali stoccati nell’area oggetto della controversia e che la demolizione della recinzione nelle more della decisione di merito avrebbe potuto causare gravi ed irreparabili danni all’attività imprenditoriale dalla medesima esercitata.

7. All’udienza pubblica del 30 settembre 2025 la causa è stata ritualmente discussa e trattenuta in decisione.

DIRITTO

8. L’appello merita accoglimento, nei sensi e nei termini più compiutamente di seguito riportati.

8.1. Giova premettere che il tema sul quale si controverte concerne la legittimità (o meno) della recinzione interna di una superficie di 5.300 mq di proprietà dell’appellante realizzata – secondo le modalità meglio descritte in premessa – a fini di deposito nell’ambito di un piazzale di complessivi 27.000 mq nel quale allo stato insistono diverse attività imprenditoriali, tra cui quella esercitata dall’odierna appellante.

Secondo quanto riferito dalla società e non oggetto di contestazione, detta porzione di piazzale “è parte di un più ampio complesso immobiliare realizzato negli anni ’60 con regolare titolo abilitativo e successivamente frazionato a seguito della crisi dell’azienda ivi allocata (…)” e a tal proposito vale sin d’ora rilevare che da una fotografia aerea depositata in primo grado si evince la sussistenza nell’area in questione di diversi capannoni e/o manufatti di tipo industriale e di ampie zone scoperte ad essi adiacenti, apparentemente – almeno per quanto sembra potersi desumere da detta fotografia – asserviti a dette attività.

8.2. Ciò posto, si tratta in primo luogo di stabilire se dagli originari titoli edilizi, risalenti rispettivamente al 1968 ed al 1984, effettivamente emergano i vincoli di destinazione a uso pubblico e/o ad attività di tipo collettivo che il Comune ha posto alla base dei provvedimenti originariamente avversati.

Ebbene deve rilevarsi che, dall’esame della licenza edilizia n. 2332/1968 e relativo grafico allegato e della concessione edilizia n. 112/1984 e relativa tavola di progetto, per come depositati in primo grado, non emerge, invero, la sussistenza di detti vincoli, né emergono riferimenti dai quali possa in qualche modo evincersi la necessità di destinare parzialmente la parte scoperta dell’area interessata (anche) dalle opere oggetto della controversia a verde e a parcheggio, nonché ad attività di tipo collettivo.

In maggior dettaglio, la licenza edilizia del 1968 autorizza “la costruzione di un deposito industriale, a condizione che i manufatti o le recinzioni sorgano a metri sei dall’asse stradale”, limitandosi a dettare talune prescrizioni relative alla realizzazione dell’opera; il grafico allegato a detto titolo, a sua volta, riporta esclusivamente i relativi disegni progettuali, senza recare alcuna annotazione se non il riferimento al “Progetto per la costruzione di un deposito industriale da realizzare sulla strada provinciale padula del Comune di Casoria”.

La concessione edilizia del 1984, a sua volta, si riferisce all’“ampliamento del complesso industriale” in parola e, in particolare, all’“ampliamento complesso per il confezionamento di calcestruzzi conglomerati bituminosi - alla via Padula come da grafici allegati” senza ulteriori indicazioni, laddove i citati grafici consistono in tavole e in una legenda, anche in questo caso in assenza di annotazioni o prescrizioni di sorta.

Non può, quindi, convenirsi con il giudice di prime cure, che ha respinto la relativa doglianza ritenendo corretto l’operato del Comune che aveva ritenuto la SCIA “in contrasto con la situazione urbanistica dell’area per come cristallizzata nella concessione edilizia n. 112 del 10/07/1984, che la destinava in parte a verde e parcheggio e in parte a standard (per attività di tipo collettivo)”, e ciò in quanto, come si è detto, dall’esame della concessione edilizia in parola non si evince in alcun modo detta destinazione.

A fronte di ciò occorre allora qui richiamare la motivazione riportata nella nota n. 78299/2023, con la quale il Comune di Casoria ha dichiarato l’improcedibilità della seconda SCIA presentata dall’odierna appellante per la realizzazione della citata recinzione interna, laddove si rileva che “i manufatti previsti dovessero essere realizzati nel rispetto dei rapporti di copertura previsti dalle NTA e del PRG all’epoca vigente”, con l’ulteriore precisazione secondo cui “inoltre era previsto [che] le aree scoperte dovessero essere destinate parte a verde e parcheggio e parte ad attività di tipo collettivo, nel rispetto di quanto stabilito dal DM 1444/1968 in materia di standard”.

Muovendo da tale decreto ministeriale, citato in detta nota senza ulteriori precisazioni, deve ritenersi – anche sulla base di quanto dallo stesso ente locale sostenuto in corso di giudizio – che il Comune si riferisse all’art. 5 del provvedimento, rubricato “Rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, che dispone che “I rapporti massimi di cui all'articolo 17 della legge n. 765 del 1967, per gli insediamenti produttivi, sono definiti come appresso: 1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell'intera superficie destinata a tali insediamenti (…)”, laddove la zona D) è definita al precedente art. 2 come “le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati”.

La disposizione si riferisce, quindi, ai “nuovi” insediamenti della specie considerata, mentre non può non rilevarsi come nel caso di specie la SCIA presentata dalla società non faccia riferimento ad una “nuova” struttura produttiva ma a ben vedere riguardi, piuttosto, la realizzazione di una recinzione interna ad un insediamento già da diversi decenni insistente nella medesima area – sia pure successivamente sottoposta a frazionamento –, di talché la disposizione non sembra attagliarsi alla fattispecie in questione.

Venendo a considerare i “rapporti di copertura previsti dalle NTA e del PRG all’epoca vigente”, deve in primo luogo rilevarsi che anche in questo caso l’indicazione riportata nel provvedimento comunale si limita ad un richiamo invero generico.

Solo in corso di giudizio l’ente locale ha fornito sul punto ulteriori indicazioni, precisando che il Piano Regolatore Generale del Comune di Casoria, approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale della Campania n. 5106 del 24 aprile 1980 e successiva variante approvata con decreto sindacale n. 161 del 18 novembre 1987, in vigore fino all’approvazione del Piano Urbanistico Comunale di cui alla delibera consiliare n. 52 del 27 dicembre 2022, “prevedeva per la zona omogenea ‘G’ – zona nella quale ricade l’area in esame – che ‘ L’attuazione del PRG è affidata ai Piani particolareggiati di esecuzione o alle lottizzazioni convenzionate (…) Nella redazione dei progetti urbanistici particolare cura sarà volta alla previsione delle sistemazioni a verde ed alla realizzazione di una zona turistica che conferisca dignità a decoro (…) I progetti dovranno essere redatti nel rispetto dei rapporti di copertura seguenti: 40% dell’area, opere per attività commerciali e terziarie; 30% dell’area, attrezzature a verde e parcheggi; 15% dell’area, per spazi pubblici (strade e piazze); 15% dell’area, per attrezzature per lo sport e il tempo libero (…)’”.

Non appare, peraltro, del tutto chiaro, anche tenendo conto delle ricordate difese dell’ente comunale come proposte in corso di giudizio, se il Comune abbia ritenuto nella fattispecie sussistente la violazione dei vincoli in questione già con riferimento all’originario impianto industriale a suo tempo realizzato in base alla licenza edilizia del 1968 (e poi ampliato sulla scorta della concessione edilizia del 1984) o più specificamente in relazione alla recinzione oggetto della presente controversia.

Ebbene, nel primo caso – laddove la violazione in parola sia stata ritenuta sussistente con riferimento all’unico impianto originario – appare di tutta evidenza che nel 1968, vale a dire quando l’insediamento era stato realizzato nella sua originaria unitarietà, il PRG non era ancora in vigore, essendo stato approvato – come dallo stesso Comune riferito – solo nel 1980; né, ad onor del vero, potrebbero imputarsi all’odierna appellante eventuali irregolarità commesse in sede di ampliamento dell’unico insediamento nel 1984, dal momento che la proprietà della porzione dell’area interessata è stata dalla medesima acquisita, secondo quanto emerge dagli atti, solo molti anni dopo e considerato che, in ogni caso, come già rilevato che neanche la concessione n. 112/1984 recava l’indicazione di alcun vincolo della specie.

Laddove, invece, il Comune abbia ritenuto sussistenti le irregolarità in parola con specifico riferimento alla recinzione oggetto della controversia – come sembrerebbe potersi evincere dall’affermazione secondo la quale “il frazionamento che la SCIA in oggetto era finalizzata a sanare comportava la variazione della destinazione d’uso dell’area con la sottrazione della stessa al rispetto di spazi minimi a servizio delle attività e della collettività” – occorre formulare alcune considerazioni ulteriori.

Si deve, in particolare, appurare se la recinzione interna in questione abbia (o meno) effettivamente comportato, come sostenuto dall’ente locale nel provvedimento originariamente avversato, “la variazione di destinazione dell’area con la sottrazione della stessa dai criteri di rispetto di spazi minimi a servizio delle attività e della collettività, rimuovendo il regime di pertinenzialità del piazzale rispetto ai manufatti che sullo stesso insistono” senza tener “conto dell’eventuale assoggettamento all’uso pubblico”.

Ebbene, appare sul punto convincente quanto sostenuto dall’appellante, secondo cui la destinazione a deposito della porzione di piazzale in argomento “è la stessa che le era stata impressa con la licenza n. 112 del 10/07/1984, in quanto la suddetta porzione non è mai stata destinata ‘in parte a verde e parcheggio e in parte a standard (per attività di tipo collettivo)”.

Non appare adeguatamente provato dal Comune, infatti, che la società con il manufatto oggetto della controversia abbia mutato effettivamente variato la destinazione d’uso dell’immobile sottraendo spazi destinati agli usi innanzi indicati, che non risulta che prima della realizzazione del manufatto fossero effettivamente tali.

E, del resto, giova ricordare che, come anche recentemente ricordato da questo Consiglio di Stato, “La destinazione delle aree effettuata in sede di pianificazione urbanistica non deve essere confusa con la destinazione d’uso degli immobili, di cui all’art. 23-ter DPR 6 giugno 2001 n. 380, dedicato al ‘mutamento d’uso urbanisticamente rilevante’ di un singolo immobile o di una singola unità immobiliare. In questo caso, il mutamento di destinazione, con o senza opere, inerisce (comma 1) a ‘ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria ... tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale’, come indicate dal medesimo comma. Ciò che costituisce oggetto di mutamento, nella previsione della norma, è il singolo immobile, inteso come fabbricato preesistente e con destinazione già impressa, o una frazione del medesimo (unità immobiliare), laddove il mutamento di destinazione dell’area oggetto del piano regolatore o di una sua variante afferisce al livello urbanistico della pianificazione generale del territorio, rientrante nelle competenze proprie dell’Ente locale, nel quadro della legislazione nazionale e regionale, e può essere realizzato solo attraverso l’adozione di strumenti urbanistici. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 19 gennaio 2023 n. 159; 29 luglio 2020 n. 4810), nella previsione del citato art. 23-ter DPR n. 380/2001, ‘la destinazione d’uso non riguarda il territorio, ma i beni che su quel territorio si collocano, e non descrive uno stato ontologico o deontologico di un’area del territorio comunale, cui si riconnette una certa disciplina conformativa del diritto dominicale per orientare le eventuali future modifiche dell’assetto urbanistico di quel luogo nell’ambito di una visione globale e funzionale del territorio comunale, ma l’uso che di quel determinato bene si sta attuando e, dunque, per dirla altrimenti, la funzione a cui esso è concretamente adibito’. E si è anche precisato che ciò comporta che la considerazione ed unificazione delle categorie funzionali di cui al citato art. 23-ter vale ‘ai soli fini della ‘insediabilità’ e quindi della ammissibilità di un determinato intervento ... ma non ai fini dell’equivalenza dell’intervento stesso dal punto di vista del carico urbanistico e dunque del relativo calcolo degli standard ai sensi del d.m. n. 1444 del 1968 e delle discipline di settore’” (così Cons. Stato, sez. II, n. 6127/2025).

Anche su tale punto non può, quindi, convenirsi con il T.a.r. laddove ha ritenuto che “la recinzione dell’area fosse preordinata alla sua modifica di destinazione d’uso”, dal momento che l’utilizzo della porzione di piazzale in questione appare essere rimasto effettivamente immutato, come sostenuto dalla società, non avendo l’ente locale adeguatamente provato il proprio contrario assunto; e ciò, vale rilevare, anche alla luce della fotografia aerea dell’intera area innanzi ricordata, dalla quale non emergono invero elementi che conducano a conclusioni di segno diverso.

Per tali considerazioni la prima doglianza, che assume ai presenti fini rilevanza centrale, merita di essere accolta.

8.3. Per le medesime motivazioni deve essere accolta anche la seconda doglianza, e ciò anche in considerazione del fatto che il Comune non ha mai contestato la necessità di un titolo edilizio diverso dalla SCIA per la realizzazione del manufatto in questione.

8.4. Quanto al terzo motivo, fermo restando quanto sin qui osservato con riferimento agli originari titoli edilizi e in particolare alla concessione n. 112/1984, deve ancora accogliersi la tesi dell’appellante in ordine al fatto che la variazione di destinazione dell’area, laddove effettivamente sussistente, si sarebbe, in ipotesi, eventualmente verificata già all’atto del frazionamento dell’unico complesso originario.

Parimenti da accogliere appare, inoltre, il dedotto difetto di motivazione del provvedimento, dal momento che, come innanzi rilevato, la mancata citazione puntuale delle disposizioni di riferimento non consente di ricostruire adeguatamente l’iter logico-argomentativo seguito dal Comune e, del resto, solo in corso di giudizio – e quindi con motivazione postuma – l’ente locale ha fornito, sia pure con i limiti già evidenziati, ulteriori elementi idonei a meglio ricostruire e comprendere le ragioni poste alla base delle proprie determinazioni.

Al riguardo sia consentito anche rilevare – sia pure in via meramente incidentale – che il provvedimento in questione, secondo quanto emerge, riguarda una porzione di 5.300 mq di un ben più ampio piazzale indicato come complessivamente pari a 27.000 mq, di talché l’ente locale avrebbe potuto esplicitare anche su tale profilo in maggior dettaglio il proprio ragionamento tenendo anche conto della situazione unitaria del piazzale medesimo e fornendo, quindi, indicazioni più specifiche su come in concreto si sarebbero dovute in ipotesi rispettare le quote percentuali del fondo – intendendosi in tal senso il fondo nella sua interezza – da destinare ad uso pubblico in una prospettiva unitaria e non limitata alla porzione di proprietà dell’appellante.

Non possono, per contro, accogliersi le doglianze relative ad altre opere asseritamente realizzate all’interno del piazzale medesimo – deve ritenersi, da parte di altri soggetti – in asserita assenza di contestazioni da parte del Comune, e ciò alla luce del principio, ampiamente consolidato, secondo il quale l’interessato non può invocare l’errore (eventualmente) commesso dall’Amministrazione a favore di altri per ottenere che il medesimo errore venga nuovamente compiuto in suo favore (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. II, n. 553/2025).

La terza doglianza può essere, quindi, accolta solo in parte.

8.5. Quanto sin qui osservato con riferimento all’invocato difetto di motivazione del provvedimento originariamente avversato si intende qui integralmente richiamato anche in relazione alla doglianza di cui al punto 4.IV, che per le medesime motivazioni deve essere quindi a sua volta accolta.

8.6. Infondato è, per contro, il quinto motivo, come elencato in premessa, dovendosi in proposito convenire con quanto ritenuto dal giudice di prime cure.

Come correttamente rilevato dal T.a.r. nella pronuncia qui avversata, infatti, l’art. 10-bis della legge n. 241/1990 non trova “applicazione per i provvedimenti dichiarativi di inefficacia della S.C.I.A., non trattandosi di provvedimenti di diniego adottati all’esito di procedimenti avviati ad istanza di parte, ma [di] provvedimenti facenti seguito alle verifiche previste dall’art. 19, commi 3 e 4 L. 241/90, che si attivano d’ufficio (benché eventualmente su sollecitazione di terzi). La S.C.I.A., infatti, per espressa previsione di legge (…) non ha valore provvedimentale, né dà avvio ad un procedimento ad istanza di parte” (sul punto cfr. anche, ex multis, Cons. Stato, sez. II, n. 2807/2025 e sez. VI, n. 833/2023).

Parimenti da condividere sono, ancora, le conclusioni del primo giudice laddove ha ritenuto che non costituisca “causa di illegittimità dei provvedimenti impugnati la circostanza che nella precedente nota prot. n. 2023/61360 del 15/09/2023, il Comune avesse comunicato l’improcedibilità della S.C.I.A. prot. n. 59992/2023 del 12/09/2023, ritenendo violate le sole disposizioni sull’altezza delle recinzioni, previste dall’art. 106, comma 3 lettera b) del RUEC. L’Amministrazione, infatti, non consuma il proprio potere di negare gli effetti di una S.C.I.A. per effetto della adozione di un atto– salvo che in specifiche ipotesi nella specie non ricorrenti -, ben potendo esprimersi anche con una pluralità di provvedimenti adottati in successione purché entro i termini e con le modalità previste dall’art. 21-nonies L. 241/90”.

8.7. Vanno per contro accolte la sesta e la settima censura, come in premessa elencate, dal momento che all’accoglimento delle doglianze – sia pure nei limiti e nei termini innanzi riportati – riferite all’atto presupposto consegue necessariamente l’illegittimità, in via derivata, dell’ordinanza di demolizione della recinzione che ne è seguita.

8.8. La censura di cui al punto 4.VIII. va dichiarata inammissibile, dal momento che si tratta di una questione legata all’eventuale applicazione di un potere nel caso di specie non esercitato dal Comune.

8.9. Deve diversamente rilevarsi l’infondatezza della doglianza successiva, con la quale l’appellante si duole dell’omessa pronuncia del primo giudice in ordine alla lamentata omissione della comunicazione di avvio del procedimento da parte del Comune.

Sul punto basterà ricordare che secondo la consolidata giurisprudenza “la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, sicché – mancando un vero e proprio procedimento – non c’è spazio per la comunicazione di avvio e per il preavviso di rigetto (cfr. Cons. Stato, n. 833/2023, n. 9125/2022 e n. 1111/2019)” (così Cons. Stato, sez. V, n. 7119/2025).

8.10. Con riferimento, infine, all’ultima doglianza, deve ancora convenirsi con l’assunto del primo giudice, laddove ha rilevato che “non è causa di illegittimità dell’ordine di demolizione l’omessa notifica dello stesso ad eventuali altri soggetti responsabili dell’abuso, sempre possibile con separati atti. Nella specie, peraltro, l’erezione della recinzione per adibire il piazzale a deposito è un intervento riconducibile alla S.C.I.A. presentata nell’interesse di parte ricorrente e non dei precedenti proprietari”.

9. Alla luce delle superiori considerazioni complessive l’appello deve essere accolto nei sensi e nei termini innanzi esposti e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, devono essere annullati i provvedimenti originariamente avversati.

10. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti in ragione della parziale reciproca soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e nei termini di cui in motivazione e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, annulla i provvedimenti originariamente avversati in primo grado.

Spese del doppio grado di giudizio integralmente compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 settembre 2025 con l’intervento dei magistrati:

Giulio Castriota Scanderbeg, Presidente

Francesco Frigida, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere

Giancarlo Carmelo Pezzuto, Consigliere, Estensore