Consiglio di Stato Sez. II n. 806 del 25 gennaio 2024
Urbanistica.Conseguenze della mancata demolizione di un immobile abusivo

In linea generale il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa. Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero - nel caso in cui ciò non sia possibile - prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire. Si ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4). L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento. Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante. (segnalazione M. Federici). 


Pubblicato il 25/01/2024

N. 00806/2024REG.PROV.COLL.

N. 03533/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3533 del 2023, proposto dalla signora Silla Marchiò, rappresentata e difesa dagli avvocati Annalisa Molinari e Carlo Masi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio della prima in Parma, via Mistrali, n. 4,

contro

le signore Emanuela Neri, Gina Paolini e Maria Patrizia Gibertoni, rappresentate e difese dall’avvocato Lucia Maggiolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Simonetta De Sanctis Mangelli in Roma, via Tommaso Salvini, n. 55,

nei confronti

del Comune di Modena, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Stefano Maini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
del signor Corrado Gianferrari, non costituito in giudizio,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sez. II, 6 febbraio 2023, n. 67, resa tra le parti, avente ad oggetto la fiscalizzazione di un abuso edilizio.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle signore Emanuela Neri, Gina Paolini e Maria Patrizia Gibertoni e del Comune di Modena;

Vista l’ordinanza del 24 maggio 2023, n. 2090;

Vista la domanda di passaggio in decisione senza previa discussione orale presentata dalle signore Emanuela Neri, Gina Paolini e Maria Patrizia Gibertoni e dal Comune di Modena;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2023, il Cons. Antonella Manzione e udito per l’appellante l’avvocato Annalisa Molinari;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. 1. La signora Silla Marchiò ha chiesto la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 6 febbraio 2023, n. 67, con la quale è stato dichiarato in parte improcedibile e in parte accolto il ricorso (n.r.g. 801 del 2021) proposto dalle signore Emanuela Neri, Gina Paolini e Maria Patrizia Gibertoni al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento del 17 giugno 2019, recante la “fiscalizzazione” dell’abuso edilizio da lei stessa realizzato, nonché sono stati accolti i motivi aggiunti avverso il provvedimento del 22 agosto 2022, che ne ha confermato le statuizioni, integrandone il contenuto.

2. La complessa vicenda di cui è causa può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei copiosi documenti e atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio.

2.1. Occorre dunque ricordare in fatto che l’appellante è proprietaria dell’unità immobiliare ubicata al quarto piano di una palazzina situata in Modena, via Castelmedardo, n. 75, con vista da e su Piazza della Pomposa, ma di per sé non sottoposta a vincolo. Gli altri piani dell’edificio sono occupati rispettivamente dalla signora Emanuela Neri (primo piano), Gina Paolini (secondo piano) e Maria Patrizia Gibertoni (terzo piano), con le relative famiglie.

Oggetto della controversia sono i lavori di copertura di un preesistente terrazzo a servizio dell’appartamento dell’appellante, sfociati nella realizzazione di un vano di complessivi mq. 13,72, in difformità dall’autorizzazione edilizia n. 1416 del 1983, rilasciata per la risistemazione dell’immobile, previo avallo dell’assemblea condominiale (presenti i danti causa delle signore Neri e Gibertoni, che hanno acquistato in epoca successiva e la signora Paolini), che aveva acconsentito alla proposta di gravare la signora Silla Marchiò di «tutte le spese relative alla sistemazione del terrazzo prospiciente il Piazzale della Pomposa, a patto che tutti i restanti proprietari diano il loro benestare alla copertura del medesimo e che non intervengano impedimenti comunali», riaprendo anche la canna fumaria corrente lungo il muro perimetrale sul medesimo lato (v. verbale dell’ 11 luglio 1983, versato in atti).

Per l’abuso è stata presentata una richiesta di sanatoria, respinta dal Comune di Modena (provvedimento prot. 21016 del 30 ottobre 2019) con conseguente intimazione al ripristino dello stato dei luoghi (ordinanza del 1° marzo 1990). Con sentenze nn. 755 e 756 dell’11 giugno 2003 (confermate dal Consiglio di Stato con la sentenza del 12 novembre 2012, n. 5707) la vicenda è stata definita a sfavore dell’odierna appellante, sancendo la definitività di tali atti, ed in particolare dell’intimazione demolitoria, quale conseguenza necessitata della mancata legittimazione postuma dell’intervento.

L’odierno contenzioso consegue alla riapertura del procedimento da parte del Comune, che ha valutato positivamente, in maniera esplicita o per facta conludentia, le varie proposte avanzate dalla signora Silla Marchiò, che ha dapprima chiesto il riesame della pratica, indi avviato una fitta interlocuzione formalmente mirata a concordare le modalità esecutive dell’ordinanza, sostanzialmente volta piuttosto a scongiurarne, ovvero attenuarne gli effetti, individuando alternative per conservare la volumetria aggiuntiva (v. da ultimo la s.c.i.a. per la realizzazione di struttura metallica, in sostituzione del manufatto da demolire). Quanto detto facendo leva essenzialmente sulla circostanza, via via riproposta in ogni sede, anche giudiziaria (v. il secondo motivo di appello, su cui più avanti) e puntualmente confutata, che sussisterebbe documentazione d’archivio comprovante la natura non abusiva, o comunque non totalmente abusiva, dell’opera realizzata, stante che l’incremento volumetrico costituirebbe in realtà il ripristino di un preesistente granaio, già ubicato in luogo della terrazza aperta successivamente trasformata. Ha così avuto avvio un ondivago procedimento nel quale il Comune ha alternato richiami alla sanzione, mai venuta meno, a sostanziali “aperture” alla ricerca di soluzioni alternative, da ultimo individuate nell’applicazione di quella pecuniaria, a quel punto con contestuale revoca dell’ingiunzione a demolire del 1990. Il primo provvedimento, dunque, oggetto del ricorso principale innanzi al T.a.r, assume quale riferimento l’art. 10, comma 2, della legge regionale per l’Emilia Romagna 21 ottobre 2004, n. 23; il successivo, dichiaratamente esecutivo del giudicato cautelare favorevole alle ricorrenti (T.a.r. per l’Emilia Romagna, ordinanza del 7 aprile 2022, n. 186), «sostituisce il precedente provvedimento dirigenziale prot. n. 182321/2019», ampliandone e in parte modificandone narrativa e motivazioni.

2.2. Il segmento terminale della vicenda interseca il parere, più volte favorevole alle proposte dell’appellante, della Commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio (CQAP), competente ad esprimersi ai sensi dell’art. 6, comma 3, della l.r. n. 15 del 2013, che da ultimo non ha avallato le opzioni costruttive alternative alla mera eliminazione del manufatto, ribadendo di ravvisare nella demolizione, e a maggior ragione nel cambiamento, un danno estetico maggiore di quello che conseguirebbe al mantenimento dello status quo ormai consolidato. L’impossibilità, cioè, di individuare con esattezza lo stato di fatto legittimato nel 1926, ha portato ad indicare come preferibile il mantenimento dell’abuso per non alterare la situazione esistente «[…] non migliorando [il ripristino ] la qualità ambientale complessiva di Piazza della Pomposa e non operando modifiche dell’edificio compatibili con il vincolo» (parere della CQAP dell’11 maggio 2018, reso sulla già ricordata s.c.i.a. condizionata n. 462/2018 avente ad oggetto «demolizione e ricostruzione con modalità diverse di veranda su spazio terrazzato»).

2.3. Va infine richiamato il diverso avviso sul punto espresso dal giudice civile, adito dalle odierne appellate ex art. 1127 c.c. Il Tribunale di Modena, con sentenza n. 410 del 7 marzo 2011, confermata nella parte qui di interesse dalla Corte di Appello di Bologna (sentenza n. 1900 dell’8 agosto 2014) ha accertato che l’abuso «rappresenta una evidente discontinuità con la linea orizzontale superiore del complessivo fabbricato; dalla foto risulta infatti che il condominio in questione riguarda una porzione verticale di un più ampio complesso edificato; risulta eretta in posizione arretrata rispetto alle linee verticali della facciata del condominio; reca due finestre di forma e finitura diverse rispetto a quelle preesistenti ai piani inferiori, ed i cui stipiti risultano del tutto disallineati rispetto a quelli delle finestre sottostanti, al contrario tra loro perfettamente incolonnate. Non v’è dubbio, pertanto, che tale sopraelevazione sia disarmonica rispetto all’organismo preesistente e perciò determini una evidente diminuzione del pregio estetico dell’edificio».

Tale decisione non è stata portata ad esecuzione dalle interessate (cosa che avrebbe prevenuto la successiva “fiscalizzazione” dell’abuso e comunque sgravato dei costi della -eventuale- demolizione d’ufficio il Comune di Modena), a loro dire confidenti nella correttezza dello sviluppo procedimentale, essendosi l’Amministrazione impegnata a renderle edotte delle scelte successive, cosa di fatto non avvenuta in relazione agli atti impugnati.

3. Il Tribunale adito ha dichiarato improcedibili i motivi di ricorso riferiti al primo provvedimento superati dal contenuto del secondo. Ha quindi basato l’accoglimento dei rimanenti, in verità non individuati analiticamente, e soprattutto di quello contrassegnato dal n. 3.1 dei motivi aggiunti, sull’affermazione che nel caso di specie non poteva trovare applicazione l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, dovendo l’intervento effettuato essere catalogato come “nuova costruzione” e non “ristrutturazione”, alla quale la norma si riferisce in via esclusiva. L’inquadramento dell’intervento come “nuova costruzione”, cristallizzato in un precedente giudicato amministrativo, sarebbe ormai intangibile, oltre che da condividere sulla base della giurisprudenza consolidatasi sulla tematica della copertura di verande o terrazze. In maggior dettaglio, nel corpo della motivazione ha ritenuto degno di pregio il rilievo in forza del quale la signora Silla Marchiò non era più legittimata a richiedere alcuna sanatoria, essendosi ormai verificato l’effetto traslativo della proprietà automaticamente correlato dal legislatore all’infruttuosa decorrenza del termine di 90 giorni per ottemperare all’ingiunzione a demolire, nel caso di specie risalente al 1990. Nel caso di specie, infatti, si tratterebbe di un vano connotato da identità strutturale e suscettibile di utilizzo autonomo, oltre che di valore economico non trascurabile, e la proprietaria non sarebbe affatto estranea alla sua realizzazione. Il recupero di documenti, quand’anche incidente sullo stato originario dell’immobile, sarebbe tardivo rispetto al principio acquisitivo dei mezzi di prova nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale, riferito al precedente contenzioso, conclusosi con la definitiva affermazione della legittimità sia del diniego di sanatoria, che del conseguente atto ripristinatorio. L’effetto peggiorativo della demolizione sull’estetica del palazzo, affermato dalla Commissione comunale nei pareri dell’11 maggio 2018 e del 7 giugno 2019, «urta frontalmente contro le statuizioni del Tribunale civile», nonché contrasta con quelle del T.a.r. che ha evidenziato inequivocabilmente che l’opera «determina un evidente peggioramento architettonico di piazza Pomposa» (T.a.r. per l’Emilia Romagna, n. 755 del 2003, cit. supra).

4. La signora Silla Marchiò ha chiesto la riforma della richiamata sentenza articolando plurimi motivi di gravame, ovvero:

i- error in iudicando, con riferimento alla qualificazione dell’intervento come di “nuova costruzione” anziché di “ristrutturazione”, ritenendo di trarre tale insormontabile definizione dal giudicato contenuto nella sentenza del Consiglio di Stato n. 5707 del 2012. La documentazione successivamente rinvenuta e non valutata in quel procedimento solo per ragioni di rito, dimostrerebbe infatti l’avvenuto ripristino di una volumetria preesistente (un granaio);

ii- error in iudicando e violazione e falsa applicazione dell’articolo 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, contraddittorietà e travisamento dei fatti. Una volta inquadrato l’intervento come ristrutturazione, viene meno la pretesa automatica acquisizione del bene al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire, non essendo la stessa prevista per tale specifica fattispecie. D’altro canto, ciò sarebbe in linea con la ratio dell’istituto, che ove diversamente interpretato finirebbe per imporre al Comune divenuto proprietario la demolizione di un minuscolo vano ricavato in un appartamento di proprietà privata. Ma pure ammettendo la denegata ipotesi (ovvero l’inquadramento della fattispecie quale “nuova costruzione”), nel caso di specie l’acquisizione non si sarebbe prodotta giusta l’involontarietà dell’inottemperanza. Il primo giudice, pur dando atto dei tentativi dell’appellante di arrivare ad una soluzione, li avrebbe poi contraddittoriamente dequotati a mera ricerca di composizione di una lite tra privati, laddove si trattava di proposte di adeguamento all’ingiunzione demolitoria, conformi peraltro alle indicazioni del parere del 2014 della Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio che si era espressa favorevolmente sulla prospettata sostituzione di una struttura “ferro/finestra” a quella attuale. L’impossibilità di ricostruire l’effettivo stato di fatto negli anni 1926/1927, di cui pure il T.a.r. per l’Emilia Romagna dà atto, sarebbe in contrasto con la successiva affermazione in forza della quale «è pacifica la realizzazione nel 1983 di una copertura dapprima non esistente, che ha concretizzato l’abuso»;

iii-erronea valutazione dei pareri emessi dalla Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio e delle decisioni di primo grado, assunte in sede civile e amministrativa. Non si sarebbe dato rilievo al fatto che le controparti non hanno mai portato ad esecuzione le decisioni del giudice civile, e ciò per l’evidente ragione che una loro lettura corretta si sarebbe risolta nel solo spostamento di due finestre, non nella demolizione della copertura. Una volta ribadito, anche da parte del T.a.r. per l’Emilia Romagna, che l’immobile non è vincolato, ma semplicemente ricadente in zona A, è evidente che andava valorizzato il contenuto dei richiamati pareri resi dall’unico organismo competente, ed in particolare degli ultimi due in ordine di tempo, ovvero quelli espressi nella seduta dell’11 maggio 2018 e del 7 giugno 2019;

iv- la qualifica di mere condomine, in quanto integrante il solo requisito della vicinitas, non sarebbe di per sé sufficiente a provare l’interesse al ricorso, nel caso di specie mancante (v. Cons. Stato, sez. IV, 31 agosto 2022, n. 7609, nonché A.P., n. 22 del 2021). Diversamente da quanto affermato dal primo giudice, infatti, le controparti non avrebbero in alcun modo provato il vantaggio riveniente loro dal ripristino, tenuto conto che l’affermato pregiudizio sulla visuale e sul decoro architettonico è stato escluso nei pareri della competente Commissione comunale.

5. Si sono costituite in giudizio le signore Emanuela Neri, Gina Paolini e Maria Patrizia Gibertoni per resistere all’appello e chiederne il rigetto. In punto di fatto, con riferimento alla tesi del ripristino di una volumetria preesistente, hanno ricordato come la stessa sia già stata proposta più volte al Comune, e sistematicamente rigettata. Nel 2006, con provvedimento prot. 82952 del 15 giugno 2006, l’amministrazione affermava che «L’interpretazione dei dati d’archivio parte dal presupposto che il piano identificato come secondo nel progetto d’innalzamento della porzione di casa verso il canale Cerca, corrisponda a quello che attualmente è il piano primo al di sopra del portico, di conseguenza quello che nell’ipotesi presentata di ripristino viene indicato come piano quarto (ex granaio) è nella realtà l’attuale piano terzo dell’edificio, che si trova perciò al di sotto della quota in cui era indicata la presenza del terrazzo nel documento del 1926». Analoghe considerazioni si rinvengono nel provvedimento del 21 maggio 2014, di riscontro alla richiesta del 2 aprile 2014, ove si legge che «non esiste nessuno “stato legittimato” risalente al 1926 poiché, come già formalmente comunicatole con precedente provvedimento (Prot. Gen. 82954 del 15/06/2006) di non ammissibilità dell’intervento di opere di rispristino volumetrico di locali nel sottotetto richiesto con istanza di Valutazione Preventiva prot. 478/2006 del 24/02/2006, il progetto dell’allora proprietario Scapinelli Anacleto riguardava il progetto di “alzamento della parte verso il canale Cerca” sul retro del fabbricato e non sul fronte ove è stato commesso l’abuso verso Piazza Pomposa». Da qui la conferma esplicita della piena validità dell’ordinanza ingiunzione a demolire del 1990.

5.1. La portata dei pareri della Commissione comunale per la qualità architettonica e paesaggistica dell’11 maggio 2018 e del 7 giugno 2019 (quest’ultimo riferito alla fiscalizzazione), andrebbe circoscritta al loro tenore letterale, ancorato all’oggetto delle richieste poste. Le affermazioni del giudice civile, sia in primo grado, che nell’integrale conferma datane dalla Corte d’appello, sono chiare nel senso del danno estetico prodotto dall’abuso.

5.2. Il Collegio riporta infine per completezza che la narrazione delle ridette argomentazione è intervallata dall’inserimento a mo’ di illustrazione di fotografie raffiguranti lo stato dei luoghi, prima e dopo l’intervento, sì da consentire la visualizzazione della modifica della linea di sviluppo del fronte degli edifici mediante l’inserimento di un obiettivo elemento di discontinuità.

5.3. In subordine, le appellate hanno riproposto, ex art. 101 c.p.a., i motivi di ricorso assorbiti dal T.a.r. per l’Emilia Romagna, ovvero, anche se accolti, non espressamente esaminati nei molteplici profili posti.

5.3.1. Hanno quindi lamentato:

- carenza di legittimazione al provvedimento di sanatoria in quanto trattandosi di un intervento che ha inciso sui prospetti avrebbe dovuto essere acquisita l’autorizzazione degli altri condomini;

-violazione degli artt. 1127 del codice civile, 90, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001, del d.m. 14 gennaio 2008 e della legge regionale 30 ottobre 2008, n. 19 e relative norme tecniche di settore in materia di sicurezza sismica, non essendo stata acquisita la preventiva autorizzazione per un’opera destinata a “sovraccaricare” l’edificio sottostante (v. Cons. Stato, 21 ottobre 2019, n. 7151);

- violazione dell’art. 10, comma 2, della l.r. 21 ottobre 2004, n. 23, che riserva allo Sportello unico per l’edilizia la competenza ad adottare la fiscalizzazione dell’abuso, qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l’impossibilità della restituzione in pristino a causa della compromissione del bene tutelato, affermazione neppure deducibile dal parere della CQAP, nonché per non essere stata effettuata alcuna previa verifica autonoma in merito allo “stato legittimato” dell’immobile;

- manifesta irrazionalità e contraddittorietà dei pareri della CQAP dell’11 maggio 2018, reso sulla s.c.i.a. condizionata n. 462 del 2018, avente ad oggetto «demolizione e ricostruzione con modalità diverse di veranda su spazio terrazzato» e del 7 giugno 2019, reso sulla domanda di sanatoria 22 giugno 2018 (alias richiesta di sostituzione della demolizione con una sanzione pecuniaria);

-eccesso di potere, essendosi ravvisato un interesse pubblico nel mantenimento di un abuso riconosciuto dal giudicato civile e amministrativo di impatto negativo sul decoro architettonico di un edificio vincolato, peggiorando l’assetto dell’intera piazza;

- eccesso di potere per non avere neppure applicato la sanzione di 20.000 euro, prevista dall’art. 31, comma 4-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, con ciò causando al Comune un danno erariale;

-eccesso di potere per disparità di trattamento rispetto ad altra situazione similare (v. la fattispecie oggetto delle sentenze del medesimo T.a.r. nn. 116 del 2013 e 868 del 2014, portate immediatamente ad esecuzione).

Con riferimento all’atto conformativo, oggetto di motivi aggiunti al ricorso di primo grado, hanno nuovamente lamentato la persistenza dei vizi non sanati, elencandoli analiticamente. Hanno riproposto anche quelli autonomamente inficianti l’atto, ovvero non derivanti da quello presupposto, e segnatamente:

- violazione dell’art. 33, commi 4 e 6, del d.P.R. n. 380 del 2001, per non essere stato richiesto il parere vincolante della soprintendenza, nonché il contributo di costruzione;

-violazione della normativa nazionale e regionale sulla necessità della previa autorizzazione sismica, “sanata” con l’ordine alla responsabile dell’abuso di produrre apposita relazione di un tecnico abilitato;

-arbitraria valutazione del vizio estetico e mancato accertamento dell’impossibilità di demolire (Cons. Stato, sez. VI; 10 gennaio 2020, n. 254);

-incompetenza, avendo il Comune esercitato poteri spettanti alla Soprintendenza.

6. Si è costituito altresì ad adiuvandum il Comune di Modena, che ha versato in atti copiosa documentazione concernente il procedimento, sostenendo la doverosità della fiscalizzazione avuto riguardo alle peculiarità del caso concreto. La difesa civica ha innanzi tutto ribadito la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c) del T.u.e.l., e non nuova costruzione, non reputando ostativo al riguardo il precedente giudicato amministrativo, che si sarebbe limitato a valutare la contrarietà con la disciplina urbanistica, senza entrare in ambito sistematico in accezione tecnica. Indi ha ricostruito il procedimento seguito in maniera tutt’affatto diversa da quanto ipotizzato dal primo giudice: l’omessa demolizione non sarebbe da ascrivere colpevolmente alla proprietà, in quanto materialmente impossibilitata a provvedervi, giusta le incertezze circa lo stato pristino cui ricondurre il fabbricato; da qui la mancata acquisizione del bene alla proprietà comunale e la successiva valutazione della documentazione prodotta, seppure inutilizzabile e non utilizzata in ambito processuale, per cercare una soluzione alternativa, essendo stata la demolizione reputata pregiudizievole sotto il profilo estetico e tale da dar luogo ad un potenziale “falso storico”, come si evince dai pareri della competente Commissione, ove correttamente interpretati. In sintesi, la scelta di applicare una sanzione amministrativa pecuniaria in luogo della demolizione troverebbe giustificazione nella constatata impossibilità di individuare lo stato legittimato di partenza, sicché qualsivoglia intervento diverso avrebbe rischiato di compromettere l’armonico sviluppo dei fabbricati della zona.

7. Con l’ordinanza n. 2090 del 2023, segnata in epigrafe, la Sezione ha accolto la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza del Tribunale amministrativo regionale, ritenendo opportuno «mantenere la res adhuc integra, anche in relazione alle esigenze abitative che l’opera è destinata a soddisfare, tanto più che il Comune di Modena, quale Ente preposto alla vigilanza sul proprio territorio, non ha evidenziato alcuna problematica di sicurezza nel mantenimento dello status quo, al contrario paventandone di maggiori, ove si opti per la richiesta demolizione».

8. In vista dell’udienza, tutte le parti hanno presentato corposa memoria per ribadire la propria prospettazione, l’appellante e le appellate pure in replica. In particolare, queste ultime hanno insistito sulla nozione e sulla consistenza dello stato legittimato preesistente. Al riguardo, le appellate invocano documentazione fotografica del 1912 tratta dall’archivio “Panini” di Modena, mentre l’appellante ne contesta l’angolazione prospettica, fuorviante dell’effettiva visualizzazione dello stato di fatto. Sulla riproposizione dei motivi non esaminati in primo grado, l’appellante ha altresì premesso una eccezione di rito, riferita al metodo con il quale sono state riprospettate questioni sulle quali il T.a.r. in verità si è espressamente pronunciato (v. questione dell’incompetenza della Commissione comunale a vantaggio della Soprintendenza), ovvero alla rappresentazione in maniera caotica, come tale di non agevole intellegibilità, di alcuni motivi di ricorso principale, ripresi poi come vizi di illegittimità derivata e pure come vizi indicati nei motivi aggiunti.

9. All’udienza pubblica del 12 dicembre 2023, sentita la difesa dell’appellante, avendo il Comune di Modena e le appellate avanzato istanza di pretermettere la discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

10. La vicenda di cui è causa, resa ancor più complessa dall’evidente conflittualità sottesa alla stessa e dal profluvio argomentativo di tutte le parti (da ultimo, la memoria di replica delle appellate supera finanche i previsti limiti dimensionali), interseca diverse questioni di diritto con riferimento alle quali appare opportuno una preliminare ricostruzione giuridica.

Oggetto di impugnativa sono due provvedimenti di c.d. fiscalizzazione di un abuso edilizio, la cui sussistenza è incontestata tra le parti, ancorché non ne sia condiviso l’inquadramento, essendone dubbia la riconducibilità al paradigma della “nuova opera” o della “ristrutturazione edilizia”, in entrambi i casi sine titulo, ovvero, al più, in totale difformità da quanto avallato con l’unico posseduto, vale a dire l’autorizzazione edilizia n. 1461 del 1983 per «risanamento e modifiche di un appartamento al 4° piano di un fabbricato civile». Il secondo provvedimento, di sostanziale conferma del precedente, consegue alla dichiarata necessità di ottemperare al giudicato cautelare favorevole alle ricorrenti in primo grado, previa acquisizione, peraltro, di documentazione tecnica che il Comune ha ritenuto satisfattiva dell’avvenuto rispetto dei requisiti imposti dalla normativa antisismica.

11. Il primo giudice, nel tentativo di mettere ordine nel reticolo delle contrapposte argomentazioni di parte, e soprattutto nel disordinato sviluppo procedimentale seguito dagli uffici comunali, ha infine motivato l’accoglimento del ricorso sul solo scrutinio positivo della doglianza contenuta al punto 3.1 dei motivi aggiunti, relativi alla invocata inapplicabilità agli interventi di “nuova costruzione” dell’istituto di cui all’art. 33, comma 4, del T.u.e. Nello sviluppo della motivazione, tuttavia, ha dato altresì atto della fondatezza di ulteriori rilievi avanzati dalle ricorrenti in particolare con il ricorso principale, seppure in verità senza preoccuparsi troppo della coerenza narrativa della ricostruzione del quadro normativo proposta. Da qui il riferimento all’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio del Comune, giusta la colpevole inottemperanza all’ingiunzione a demolire, non potendo la condotta della proprietaria essere “scriminata” dai documentati tentativi di appianare le problematiche di natura civilistica sottese alla vicenda. Con riferimento poi alle censure riguardanti il primo atto, ma superate dal contenuto del secondo (lesione del contraddittorio, violazione o erronea applicazione della l.r. n. 39 del 2004), dando atto che esse sono state «depotenziate, alla luce del rinnovato esercizio dell’iter procedimentale e del nuovo provvedimento», ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse. Alcune ulteriori questioni invece, o in quanto «aventi natura logicamente subordinata» o perché divenute irrilevanti (ad esempio, il rispetto delle norme in materia sismica, l’incongruità motivazionale, la disparità di trattamento), sono state assorbite. Infine, «sull’applicazione della sanzione di 20.000 € (asseritamente dovuta ex art. 31 comma 4-bis)» ha ritenuto di non potersi pronunciare «trattandosi di attività amministrativa consequenziale e non ancora esercitata».

12. Il Collegio ritiene dunque utile innanzi tutto chiarire che il perimetro della controversia si concentra essenzialmente sul provvedimento del Comune di Modena del 2022, che in quanto confermativo del precedente, ne replica il contenuto (e quindi i vizi), ampliandoli, ma nel contempo ne elimina alcuni in precedenza presenti.

12.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e di una nuova ponderazione degli interessi. In tale seconda ipotesi, va dunque richiamato l’insegnamento giurisprudenziale per il quale «ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell´Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15 gennaio 2018, n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 2 settembre 2013, n. 4358 e sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3457).

13. Da un confronto meramente testuale tra la determina del 2019 e quella del 2022 risultano chiari gli elementi di diversificazione e di approfondimento sopravvenuto, a partire dal mutato richiamo alla cornice normativa di riferimento, abbandonando il riferimento alla legislazione regionale per ricondurre la scelta solo sotto l’egida dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001. Da qui, l’effettiva inutilità della riproposizione da parte delle appellate delle censure facenti leva sulla contestata errata applicazione di tale legislazione regionale.

13.1. Vero è che nei casi di riedizione del potere in mera ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2011, n. 1757; Cons. Stato, sez. IV, 2 gennaio 2019, n. 16). Nel caso di specie tuttavia l’adozione non in maniera spontanea, ma in esecuzione della decisione cautelare del giudice, del nuovo atto regolante la vicenda da parte dell’Amministrazione, non dà allo stesso rilevanza provvisoria, in attesa cioè che una sentenza di merito definitiva accerti se quello originariamente impugnato sia o meno legittimo. Al contrario, da esso emerge chiaramente che l’Amministrazione, a seguito della decisione del giudice, ha sostituito il provvedimento la cui esecutività è stata sospesa in sede giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il giudicato, innovando rispetto all’assetto di interessi già pregiudizievole per il privato. In sintesi, seppure il dirigente abbia richiamato espressamente in premessa l’ordinanza n. 186/2022 del T.a.r. per l’Emilia Romagna, se ne è poi discostato radicalmente, avendo da subito rimarcato che «non si è verificato alcun effetto ablatorio del manufatto in questione a favore del Comune di Modena visti gli intendimenti reiteratamente espressi dalla sig.ra Marchiò di dare corso all’ordinanza con il corretto obiettivo di ripristinare uno stato dei luoghi conforme alla categoria del restauro propria dell’immobile, e non di creare un “quid novi” inconciliabile con tale categoria». In senso diametralmente opposto la richiamata ordinanza, esprimendosi sul fumus dell’istanza, dà atto che « in buona sostanza, l’effetto ablatorio in favore del Comune appare essersi verificato ope legis con l’inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all’ingiunzione, mentre è irrilevante la mancata adozione di un atto di ricognizione della consistenza immobiliare oggetto di trasferimento (il quale costituisce viceversa titolo necessario per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari del trasferimento dell’immobile)», invocando anche la copiosa giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia.

14. Sempre in limine litis, alterando la sistematica seguita nello sviluppo dell’appello, il Collegio ritiene opportuno scrutinare il quarto motivo di gravame, con il quale la signora Silla Marchiò lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente l’interesse ad agire delle condomine, asseritamente identificandolo nella mera affermazione di tale specifico status.

15. In materia di impugnazione dei titoli edilizi, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 22 del 2021, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sulle condizioni dell’azione impugnatoria da parte di chi si ritenga leso da un titolo rilasciato a terzi, ha precisato che la mera c.d. vicinitas, intesa come vicinanza fisica della propria proprietà rispetto a quella oggetto dell’intervento edilizio contestato, non basta a dimostrare l’esistenza di un concreto ed attuale interesse a ricorrere, dovendosi affermare la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso. Il Giudice è tenuto dunque ad accertare anche d’ufficio la sussistenza di entrambe le condizioni dell’azione, verificando se esiste un vantaggio concreto ed attuale che il ricorrente potrebbe effettivamente trarre dalla caducazione del titolo edilizio contestato, tenuto conto delle specifiche censure articolate in atti e concedendogli la possibilità di precisarlo e comprovarlo in corso di causa, in modo da evitare il compimento di attività giurisdizionali inutili, in contrasto con l’interesse pubblico all’efficienza ed efficacia del processo ex artt. 111 Cost., 6 e 13 CEDU e 47 Carta UE.

15.1. Quanto detto non subisce deroghe neppure laddove ad agire sia un condomino, in relazione ad interventi che non interessino, o non interessino direttamente, parti comuni dell’edificio, seppure evidentemente la peculiarità del contesto renda la vicinitas per così dire ontologicamente intrinseca alla relativa qualifica. Come di recente affermato anche dalla Sezione, ad esempio, laddove le conseguenze dannose dell’intervento siano già state oggetto di pronuncia risarcitoria favorevole, l’interesse è venuto meno, al fine di evitare un’indebita locupletatio del terzo rispetto alla censurata attività edificatoria altrui (Cons. Stato, sez. II, 17 ottobre 2022, n. 8841).

15.2. Nel caso di specie tuttavia l’intervento è consistito nella sopraelevazione dell’edificio, con riferimento alla quale le odierne appellate non a caso hanno proposto ricorso innanzi al giudice civile ex art. 1127 c.c. La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la signora Silla Marchiò l’ha “inglobato” nel proprio appartamento. E in effetti, quale che ne sia l’inquadramento tipologico sotto il profilo edilizio e a prescindere dalla contestata efficacia di giudicato di tali affermazioni da parte della difesa civica, giusta l’estraneità del Comune di Modena a ridetto contenzioso, il Collegio condivide la ricostruzione dei fatti di causa operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c. Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale » nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico». Il riferimento alle finestre, quindi, cui l’appellante vorrebbe circoscrivere la portata del giudicato civile, è solo esemplificativo, oltre che rafforzativo, della generale disarmonia prodotta, quanto meno ad avviso del giudice civile.

15.3. La tutela, dunque, del valore architettonico dell’edificio condominiale, astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione, integra sicuramente l’interesse ad agire avverso provvedimenti che ne legittimano il mantenimento, siccome accaduto nel caso di specie.

15.4. Va pertanto respinto il quarto motivo di appello.

16. D’altro canto e in senso diametralmente opposto, la sentenza impugnata ha ritenuto meritevole di apprezzamento la tesi contenuta nei motivi 2.1, 2.2 e 2.5 del ricorso introduttivo, laddove le appellate allora ricorrenti lamentano il difetto di legittimazione a chiedere una sanatoria da parte dell’appellante, essendo ormai intervenuta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio indisponibile del Comune, e alla luce del giudicato formatosi sulla compromissione e peggioramento del decoro architettonico del palazzo. La questione, ripresa nel motivo aggiunto 3.1, è infine più correttamente ricondotta non alla legittimazione ad avanzare richieste di qualunque genere al Comune di Modena -cui spettava l’onere di dichiararne se del caso l’improcedibilità - bensì alla ritenuta violazione, nell’adozione degli atti impugnati, dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, che essendo riferito alle ipotesi di ristrutturazione abusiva, non avrebbe potuto trovare applicazione in caso di “nuova costruzione”, quale quella in esame.

17. Il Collegio ritiene utile premettere una sintetica ricostruzione dei principi posti a base degli istituti giuridici a vario titolo e con finalità opposte evocati da tutte le parti in causa, in maniera peraltro spesso confusa, sì da attingere indistintamente elementi dall’uno e dall’altro, seppure si tratti di categorie autonome e per nulla fungibili.

18. L’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, prevede, per i soli casi di opera eseguita in assenza di permesso di costruire, ovvero in variazione essenziale o totale difformità dallo stesso, quale conseguenza della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, un’automatica fattispecie acquisitiva al patrimonio del comune dell’opera abusiva e della relativa area di sedime. Sull’automatismo del relativo meccanismo acquisitivo si è di recente espressa anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai cui principi occorre fare integrale rinvio, seppure con talune precisazioni integrative (Cons. Stato, A.P., 11 ottobre 2023, n. 16).

18.1. Come affermato dal giudice delle leggi con riferimento all’omologa previsione contenuta nell’art. 15, comma 3, della l. 28 gennaio 1977, n. 10, «l’acquisizione, a titolo gratuito, dell’area sulla quale insiste la costruzione abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità od in assenza della concessione e, poi, non adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa» (Corte cost., ordinanza n. 82 del 15 febbraio 1991). La natura sanzionatoria autonoma dell’acquisizione al patrimonio, da sempre riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (da ultimo, v. ex multis C.G.A.R.S., 25 marzo 2022, n. 373, nonché Cons. Stato, sez. II, 20 gennaio 2023, n. 714), ha trovato d’altro canto conferma con l’aggiunta al predetto art. 31 dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, per effetto dell’art.17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11 novembre 2014, n.164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, che hanno previsto un’ulteriore e autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico. Sanzione aggiuntiva della quale le appellate lamentano la mancata irrogazione. Sul punto, come detto, il primo giudice ha ritenuto di non pronunciarsi, essendo il relativo potere ancora esercitabile dal Comune di Modena, così dando ulteriormente per scontato che l’intera fattispecie sia da ricondurre all’interno della cornice delineata dall’art. 31 e non dall’art. 33 del T.u.e.

18.2. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono dunque due distinte sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.). Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive, per cui l’individuazione del suo destinatario comporta l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene; invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la correlata sanzione pecuniaria).

18.3. Le scansioni procedurali sintetizzate dall’Adunanza plenaria risultano dunque essere le seguenti: «[…] il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze, sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali:

a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;

b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001);

c) decorso il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla ‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno».

19. In linea generale, quindi, il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa. Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero - nel caso in cui ciò non sia possibile - prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.

20. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche.

21. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4).

21.1. L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento. Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante.

21.2. Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque, lungi dal costituire baluardo meramente formale strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi. Il che poi, sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del manufatto abusivo. Per pacifica giurisprudenza esso costituisce un mero atto istruttorio endoprocedimentale che precede il provvedimento vero e proprio costituente titolo «per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente»; ma a detto verbale di sopralluogo deve essere attribuito anche il valore corrispondente, mutatis mutandis, al verbale di contestazione dell’illecito ex art. 14 della l. n. 689 del 1981, stante che è solo a far data dallo stesso che il proprietario viene messo in condizione di chiarire la propria posizione, scongiurando l’effetto acquisitivo (ma non, ovviamente, quello demolitorio). Solo così è possibile recuperare quel necessario elemento di raccordo tra i due snodi che tipicamente connotano ogni procedimento sanzionatorio, ovvero la fase affidata agli organi di vigilanza, deputata all’acquisizione di elementi istruttori, e la successiva, avente natura lato sensu contenziosa e decisoria, preordinata all’adozione, da parte dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, del provvedimento di irrogazione della stessa.

21.3. Nel contempo, le ricordate esigenze di certezza del diritto non possono tradursi in un effetto traslativo destinato a rimanere meramente virtuale ove non seguito, cioè, dai necessari e doverosi adempimenti formali. Ritiene dunque il Collegio che l’operatività “di diritto” dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per dare luogo ad un cambio di proprietà.

21.4. È evidente al riguardo che ciò non esclude le eventuali responsabilità, penali, amministrativo-contabili e/o civili conseguente alla sostanziale rimessione in termini operata dal Comune nel momento in cui non dà seguito al procedimento sanzionatorio. Trattasi tuttavia di vicende estranee al perimetro del giudizio e comunque inidonee ad inficiare ex se il successivo procedimento amministrativo.

22. Ulteriore corollario di tali scelte gestionali è costituito dalla potenziale incidenza delle stesse sulla valutazione della “colpevolezza” del soggetto tenuto a rimuovere l’abuso. Anche a tale riguardo, va detto che l’Adunanza plenaria, nella pronuncia poc’anzi richiamata, seppure quasi come un obiter, ha individuato quale unica ipotesi di esclusione della imputabilità (non della colpevolezza, quindi) il caso, in verità alquanto di scuola, della «malattia completamente invalidante» ( § 19.6, della pronuncia n. 16 del 2023).

23. Ritiene il Collegio che se è lo stesso Comune ad aprire un dialogo con la proprietà, accedendo alle relative proposte e di fatto operando continue rimessioni in termini rispetto a quello normativamente previsto per l’ottemperanza, ridetta colpevolezza non può che essere esclusa.

23.1. Nel caso in esame, l’Amministrazione da un lato non ha mai inteso annullare in autotutela l’ordinanza del 1990 - revocata, a distanza di oltre trenta anni, con i provvedimenti impugnati; ma dall’altro non vi ha dato mai alcun concreto seguito, come avrebbe potuto –recte, dovuto – fare una volta passata in giudicato la sentenza n. 1507/2012 di questo Consiglio di Stato, che ha confermato la legittimità della denegata sanatoria. Manca, dunque, un vero accertamento di inottemperanza: l’ammissione della stessa per tabulas nelle richieste di parte, dapprima di riesame, indi di sanatoria/legittimazione di una diversa modalità costruttiva, infine di fiscalizzazione, non è stata in alcun modo valutata dal Comune in relazione alla tempistica entro la quale l’abuso avrebbe dovuto essere demolito. Finanche la nota del 21 maggio 2014, di riscontro alla richiesta di parte del 2 aprile 2014, invocata dalle appellate a conferma delle proprie tesi, conferma la scelta del Comune di non dare seguito alla sanzione originariamente inflitta. È vero, infatti, che in tale occasione il dirigente ha dichiarato non decaduto «nessun ordine di demolizione causa del parere della Commissione per qualità architettonica e il paesaggio del 14/03/2014 ove, a fronte di una Sua volontaria demolizione di quanto realizzato abusivamente. È stato proposto di valutare la possibilità di realizzare (dopo la demolizione dell’abuso), una struttura di tipo “ferro-finestra” per consentire il godimento del terrazzo prospiciente su piazza Pomposa»; salvo poi sollecitare la stipula di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, con ciò riconducendo il problema del mantenimento o meno dello status quo al previo avallo degli altri condomini, non alle questioni ostative di natura urbanistica. Lo stesso è a dire della successiva comunicazione del 30 luglio 2015, che in maniera ancora più ambigua “concede” «ulteriori 90 giorni, dal ricevimento della presente, per dar corso all’esecuzione dell’ordinanza di demolizione del 01.03.1990», sull’assunto che non è stato dato riscontro all’invito precedente. La nota peraltro preannuncia, in caso di ulteriore inottemperanza, non la futura acquisizione del bene e dell’area di sedime, ma l’irrogazione aggiuntiva della (sola) sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis del T.u.e., «in considerazione del fatto che l’abuso ricade nelle aree di cui all’art. 27 comma 2 del citato D.P.R. 380/2001», senza peraltro precisare l’ipotizzata tipologia del vincolo, con ciò rafforzando tuttavia l’originario inquadramento dell’illecito nella fattispecie più grave.

24. Sotto tale profilo, dunque, è meritevole di positiva valutazione la contestata acquisizione del bene alla proprietà comunale (secondo motivo di appello, laddove si contestano i capi da 1.6 a 1.8, pag. 28-29), ripreso anche dal Comune di Modena, con argomentazione maggiormente perspicua.

25. Il T.a.r. per l’Emilia Romagna, tuttavia, dopo essersi dilungato sulla tematica dell’automatica acquisizione del bene al patrimonio comunale, vi giustappone quella della ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto della fiscalizzazione.

26. Con il termine “fiscalizzazione” dell’abuso, funzionale ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la sua sostanziale monetizzazione, si intende un rimedio alternativo eccezionalmente concesso in luogo della demolizione. In particolare, si può accedere alla fiscalizzazione sia in caso di mancanza, totale difformità o variazione essenziale dal titolo riferito ad ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001); sia a fronte di accertata difformità solo parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e 2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli interventi soggetti a s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela, del titolo stesso (art. 38). Ma non nell’ipotesi, più grave, di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o variazione essenziale dallo stesso (art. 31).

27. Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di variazione essenziale o totale difformità ovvero di illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali (art.33, comma 2); laddove si tratti di parziale difformità la stessa è limitata alla verifica dell’impatto sulla «parte eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.

27.1. Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando la priorità sempre e comunque accordata all’opzione ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza della costruzione nel caso della variazione essenziale o totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona” del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo, prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia di intervento effettuato (che dunque può anche non essere una ristrutturazione).

27.2. Con riferimento agli immobili non vincolati ma ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, la norma prevede un’ulteriore “variabile” procedimentale, ovvero la necessità del previo «parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria» a cura dell’«amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali».

28. Se si eccettua il caso dell’avvenuta caducazione del titolo, è dunque evidente che la fiscalizzazione costituisce un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il legislatore consente eccezionalmente di preservare: ciò avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in maniera minimale dalle indicazioni del permesso di costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio edilizio preesistente.

29. Certo è che essa si basa su presupposti del tutto diversi da quelli che portano all’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile quale conseguenza dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire: e ciò per l’evidente ragione che la maggior gravità di queste ultime non consentono mai di tollerare il mantenimento in loco di situazioni di illecito permanente ritenute radicalmente in contrasto con esigenze di buon governo del territorio. Laddove ciò avvenga, infatti, deve trattarsi di una scelta funzionale all’interesse pubblico deliberato dall’organo legislativo del Comune, e successiva all’acquisizione della proprietà alla mano pubblica (art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).

29.1. Rileva ancora il Collegio come tale eterogeneità contenutistica trovi piena conferma nelle differenze di declinazione dei relativi procedimenti sanzionatori: gli artt. 33 e 34 del T.u.e. non prevedono affatto la notifica dell’accertamento di inottemperanza per l’evidente ragione che ad essa non consegue la perdita della proprietà. L’iter si ricongiunge in tratti omogenei con riferimento alla demolizione, che nei casi più gravi è successiva all’acquisizione dell’opera, ma grava pur sempre sul Comune, seppure a spese dei responsabili dell’abuso.

30. La sentenza impugnata, in verità in assenza di una specifica censura sul punto, inquadra l’intervento come “nuova costruzione” e coerentemente ritiene non applicabile l’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non riferibile a ridetta tipologia di intervento edilizio, salvo poi precisare che in ogni caso la fiscalizzazione non avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica.

Su siffatto inquadramento «il Comune era privo di margini di apprezzamento, avendola il giudice amministrativo già qualificata come “nuova costruzione” (cfr. sentenza irrevocabile sez. II- 11/7/2003, par.1-d)». Esso inoltre contrasterebbe con la giurisprudenza, richiamata allo scopo, che « […] ritiene che debba essere classificata come nuova costruzione, non pertinenziale, anche una tettoia “che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa o di elevazioni dell’opera” (cfr. T.a.r. Calabria Reggio Calabria- 23/1/2023 n. 96, che evoca Consiglio di Stato sez. IV – 2/3/2018 n. 1309)».

31. Il Collegio non condivide la ricostruzione, ritenendo di accedere al riguardo alla diversa prospettazione fornita in merito dalla difesa civica. Le argomentazioni dell’appellante, invece, in quanto fondate essenzialmente sulla ribadita attendibilità della documentazione concernente la preesistenza di un granaio che si sarebbe andato a ripristinare, già ritenuta inconferente sia dal Comune (con atti non impugnati), sia dal giudice civile, si palesano in parte qua prive di pregio.

D’altro canto, laddove l’Amministrazione avesse voluto rivedere anche le proprie originarie posizioni negative al riguardo, avrebbe dovuto rieditare tutti i precedenti dinieghi, a far data da quello del 30 ottobre 1989, per contro mai messo in discussione.

32. Il provvedimento datato 22 agosto 2022, oggetto di motivi aggiunti di ricorso, diversamente dal precedente, del 17 giugno 2019, inquadra espressamente l’opera «nella categoria di intervento della ristrutturazione edilizia, nell’accezione di cui alle lett. d) comma 1 art. 31 Legge n. 457/1978, ora lett. d) comma 1 art. 3 DPR 380/2001 e lett. c) comma 1 art. 10 DPR 380/2001».

33. Il Collegio ritiene che l’inquadramento dell’abuso come ristrutturazione edilizia sine titulo, in quanto neppure fatta oggetto di censure di merito, non fosse in alcun modo preclusa dal precedente giudicato amministrativo. La scarna motivazione ricavabile dalle sentenze del Ta.r. per l’Emilia Romagna n. 755 del 1990 e n. 756 del 1990, confermate dall’altrettanto sintetica pronuncia del Consiglio di Stato n. 5707 del 2012, infatti, pare piuttosto arrestarsi ai limiti della relativa questione, non prendendo una vera e propria posizione in termini di inquadramento sistematico. Nella prima, in particolare, avente ad oggetto proprio il diniego di sanatoria del 30 ottobre 1989, il richiamo è all’art. 14 delle allora vigenti n.t.a. che vietano «ogni costruzione, anche di carattere provvisorio», così creando quel vincolo di inedificabilità assoluta sull’immobile ostativo al rilascio della sanatoria ex art. 33, lett. a) della l. n. 47 del 1985. Analoga argomentazione è contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, ove in maggior dettaglio si precisa come la «sostanziale sopraelevazione dell’edificio e […] costruzione di un nuovo vano» implica l’operatività del richiamato vincolo di inedificabilità, che seppure contenuto nella pianificazione urbanistica, esclude la condonabilità ai sensi della norma poc’anzi richiamata. La disciplina urbanistica, cioè, ammettendo sul fabbricato esclusivamente il risanamento conservativo, non consentiva alcun tipo di incremento volumetrico, automaticamente riconducendo lo stesso a “nuova” costruzione, come tale vietata. La dicitura “nuova costruzione”, cioè, pare effettivamente utilizzata in accezione atecnica, comunque sufficiente a motivare la reiezione di quello specifico ricorso.

34. D’altro canto, al momento della sua realizzazione era operante la sola previsione di cui all’art. 31 della l. n. 457 del 1978 - non a caso richiamato esso pure nelle premesse all’atto impugnato nella versione del 2022 - che ha per la prima volta avocato alla potestà statale ambiti lasciati fino ad allora alla libera interpretazione delle norme tecniche e dei regolamenti edilizi comunali. Va peraltro ricordato che già dalla seconda metà degli anni ´80 - ferma restando la definizione di legge - si era riscontrata finanche una frattura fra l’orientamento della giustizia amministrativa e quello della giustizia penale in quanto la prima riconosceva la possibilità nella ristrutturazione di aggiungere anche un quid novi e cioè incrementi volumetrici dell’edificio preesistente, laddove la seconda lo negava in maniera tassativa.

34.1. D’altro canto proprio la ristrutturazione edilizia, la cui definizione è ora contenuta nella lettera d) del comma 2 dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha subito nel tempo una storia travagliatissima, tanto da costringere l’interprete ad una faticosa opera di “ortopedia” e lettura sinottica delle diverse disposizioni che si sono succedute nel tempo al fine di stabilire quali fra gli interventi rientranti nella detta definizione siano oggi subordinati a permesso di costruire e quali possano invece essere realizzati con semplice s.c.i.a. La norma, in verità, nella sua formulazione originaria, riprendeva e precisava in chiave fortemente limitativa- in quanto imponeva la «fedele ricostruzione» con «identicità» di «sagoma, volume, sedime e materiali»- quella del 1978, tant’è che da subito è stata oggetto di novelle caratterizzate da aperture sempre più sviluppate.

34.2. Da ultimo, con la legge di conversione 15 luglio 2022, n. 91, del decreto legge 17 maggio 2022, n. 50, c.d. decreto “Aiuti”, vi sono state ricomprese anche le tipologie di interventi demo-ricostruttivi “non fedeli” ricadenti in area vincolata che il legislatore aveva nelle precedenti modifiche continuato a riservare alla diversa categoria della nuova costruzione.

35. Una volta ammesso dunque l’inquadramento della fattispecie come ristrutturazione edilizia, viene meno qualsivoglia astratta possibilità di ipotizzare la perdita della proprietà, che comunque il Comune espressamente esclude nell’atto impugnato, in maniera tuzioristica, attribuendosi la scelta di avere valutato favorevolmente il fattivo contributo della proprietaria, escludendone la volontaria e quindi colpevole inottemperanza.

36. Il Collegio non ritiene comunque di addivenire ad una soluzione diversa da quella propugnata dal primo giudice, ancorché mutandone la motivazione, giusta il sostanziale sviamento da parte del Comune dal potere sanzionatorio del quale è titolare in materia urbanistico-edilizia.

37. Prive di pregio si palesano innanzi tutto le ulteriori censure dell’appellante, atte a valorizzare il contenuto dei vari pareri della Commissione comunale: essi, infatti, non solo «urtano frontalmente», come riportato dal T.a.r, contro le statuizioni del giudice civile sul nocumento estetico al fabbricato; ma soprattutto attengono ad un mero giudizio di valore, basato cioè sulla personale opinione di quell’organo, privo di specifica competenza in materia di tutela vincolistica, circa l’opportunità di non modificare lo stato dei luoghi, in base ad un costrutto, più empirico che giuridico, che nel dubbio tende a considerare il rimedio (ovvero la demolizione) peggiore del male (la conservazione dell’illecito). Anche a non voler considerare l’innegabile incoerenza evolutiva degli stessi, che hanno valutato senza soluzione di continuità richieste di riesame di un procedimento sanzionatorio ormai concluso, proposte edificatorie alternative alla demolizione, ovvero (ri)proposte sub specie di s.c.i.a. (laddove per dare esecuzione ad una demolizione non è evidentemente necessario alcun titolo, né è pensabile inserire in tale fase una anomala legittimazione sanante di porzione di illecito, in deroga alla -per quanto consta in atti - immutata disciplina urbanistica sul punto), essi non attengono agli aspetti tecnico-strutturali dell’edificio. Trattasi cioè di una valutazione “a tavolino” che nulla ha a che vedere con il doveroso accertamento dell’impossibilità, sotto il profilo tecnico, di addivenire a demolizione, richiesto dalla norma in termini generali. La circostanza che manchi un’indicazione espressa in tal senso, non significa che alla disposizione possa attribuirsi un senso diverso da quello fatto palese dal sistema, per come sopra delineato, che vede nella monetizzazione dell’abuso un rimedio di natura eccezionale e derogatoria alla normalità del ripristino. Non a caso, la differenza sostanziale tra le varie ipotesi di fiscalizzazione degli abusi va ravvisata negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera, sanata solo caso in cui essa consegua all’annullamento del titolo edilizio, cui parte della dottrina accomuna al più le “monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui agli artt. 36-37 del T.u.e. (v. Cons. Stato, A.P., 7 settembre 2020, n. 17). Nelle rimanenti ipotesi invece, in assenza di indicazione da parte del legislatore analoga a quella contenuta nell’art. 38, comma 2, del T.u.e, dopo non poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza è attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad ordinamento, come tale da circoscrivere a situazioni di effettiva e oggettiva impossibilità di ripristino.

37. D’altro canto, neppure attingendo alla ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 33 può salvaguardarsi il procedimento seguito.

Va infatti ricordato che in caso di opere eseguite su immobili vincolati (comma 3) non è ammessa alcuna fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per la relativa effettuazione. Nel caso invece di opere eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante. Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all’amministrazione comunale.

37.1. Anche a voler ritenere la richiesta da parte del dirigente comunale del tutto sganciata da una preventiva valutazione tecnica di fattibilità, comunque condizionante il successivo parere, dalla stessa non è certo possibile prescindere laddove si addivenga ad una decisione tutta interna al Comune, possibile solo dopo avere interpellato le Soprintendenze.

38. Il Collegio ben conosce al riguardo il diverso orientamento (invero risalente) del Consiglio di Stato secondo il quale in mancanza di uno specifico regime vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se non nei casi e nei limiti previsti dalla legge (Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2014, n. 855). Quanto detto sia in ragione dell’immediato superamento dello stesso da altro di senso diametralmente opposto (Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2014, n. 1084), cui il Collegio aderisce, sia in quanto nel caso di specie è proprio il legislatore ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio, anche singolo, all’interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all’Autorità preposta alla tutela di un vincolo, ancorché formalmente non imposto. D’altro canto, la affermata insanabilità dell’opera di cui all’originario provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica.

38.1. Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun conto dei precedenti giudicati sul punto, il Comune di Modena ha violato l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, come lamentato dalle appellate nei motivi 2.4 e 2.5 del ricorso di primo grado (riproposti come motivo aggiunto 3.0, che richiama gli originari 2.4 e 2.5, nonché, in quanto fonte di vizio autonomo, nei motivi aggiunti 3.2 e 3.5). Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell’assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur.

39. Né infine a diverse conclusioni può condurre l’enfatizzata difficoltà di individuazione dello “stato legittimato preesistente” stante che la relativa dizione non può far retroagire ad libitum l’individuazione della consistenza di un immobile, finendo per consentire la eventuale stratificazione di abusi edilizi che si sono succeduti nel tempo dopo l’originaria edificazione del manufatto principale.

40. Tale indebita lettura dello “stato legittimato” contrasta peraltro anche con la definizione datane di recente dal legislatore.

40.1. Lo “stato legittimo” dell’immobile, infatti, è oggi declinato nel comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 -dunque dopo l’adozione del primo provvedimento impugnato, ma prima del successivo – che lo individua in «[…] quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia». La disposizione, già sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, è stata ritenuta rispettosa del riparto costituzionale in materia edilizia in quanto si limita ad individuare, in termini generali, la documentazione idonea allo scopo, definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni – comprovate dai lavori preparatori – sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili. «Il contenuto prescrittivo di ampio respiro e le finalità generali perseguite dalla norma depongono a favore della sua qualifica in termini di principio fondamentale della materia, ciò che trova conferma nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle “Disposizioni generali” del Titolo II della Parte I t.u. edilizia, dedicato ai “Titoli abilitativi”» (Corte cost., 14 settembre 2022, n. 217).

40.2. Lo “stato legittimo dell’immobile”, dunque, riguarda una sua condizione permanente, preesistente alla stessa entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere realizzate prima del 1967, ovvero in epoca ancor più risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio, il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2023, n. 3006; sez. II, 15 settembre 2023, n. 8339).

40.3. Laddove tuttavia, come nella specie, un titolo edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che “scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno.

41. Il Comune di Modena, facendo leva sulla mancata descrizione di tale “fantomatico” stato dei luoghi legittimato, cui ricondurre il ripristino della copertura, nell’ambito dell’ingiunzione a demolire del 1990, lo ha elevato a elemento essenziale della stessa. Con ciò pretermettendo che nella specie l’abuso non è consistito nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al rigetto di una sanatoria: ed è il contenuto di tale richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al titolo rilasciato (l’autorizzazione del 1983). Va dunque condivisa l’affermazione del T.a.r. per l’Emilia Romagna laddove evidenzia che la controversa consistenza del palazzo negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel 1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo comunale.

42. All’accoglimento delle (correttamente) riproposte censure di cui ai motivi aggiunti 3.0 e 3.5, non esaminate dal primo giudice, consegue la conferma della sentenza del T.a.r. per l’Emilia Romagna, n. 67 del 6 febbraio 2023, con diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei provvedimenti del Comune di Modena del 17 giugno 2019 e del 22 agosto 2022. Essi infatti sono stati adottati in violazione dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la competenza in merito della Sola Soprintendenza.

43. La presente decisione è stata assunta tenendo conto dell’ormai consolidato «principio della ragione più liquida», corollario di quello di economia processuale (cfr. ancora Cons. Stato, A.p., n. 5 del 2015, cit. supra, nonché Cassazione, Sezioni Unite, 12 dicembre 2014, n. 26242), tenuto conto che la questione vagliata esaurisce la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione Civile, sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cassazione Civile, sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663, e per il Consiglio di Stato, sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209, 13 settembre 2022, n. 7949, e 18 luglio 2016, n. 3176).

44. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti, in ragione dell’esito del giudizio e della complessità e parziale novità delle questioni intersecate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei soli limiti di cui in motivazione; lo respinge per il resto. Accoglie le eccezioni riproposte dalle appellate e per l’effetto conferma la sentenza impugnata, con diversa motivazione.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente

Giovanni Sabbato, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore

Stefano Filippini, Consigliere

Francesco Cocomile, Consigliere