Consiglio di Stato Sez. VI n. 775 del 7 febbraio 2018
Urbanistica.Acquisizione immobile abusivo e CEDU

La misura amministrativa dell’acquisizione al patrimonio comunale, in quanto prevista da norma espressa, è senza dubbio compatibile con il requisito di legalità previsto dalla norma convenzionale. Sotto altro profilo, l’ingerenza da parte di un’autorità pubblica nel pacifico godimento dei beni è giustificata per la tutela di un interesse generale legittimo, ovvero quello della tutela del territorio. Da ultimo, l’interessato non sopporta un «onere individuale eccessivo», in quanto egli può scongiurare l’effetto ablativo rimuovendo l’abuso (diversamente opinando, sarebbe agevole aggirare la normativa repressiva, vendendo a terzi il complesso immobiliare dopo la commissione dell’abuso e prima della adozione da parte del Comune del provvedimento di acquisizione gratuita).



Pubblicato il 07/02/2018

N. 00775/2018REG.PROV.COLL.

N. 07968/2016 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7968 del 2016, proposto dalla signora Maria Teresa Gorlero, rappresentata e difesa dall’avvocato Glauco Stagnaro, domiciliata ex art. 25 c.p.a. presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;

contro

il Comune Diano Arentino, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Raffaella Rubino, Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14/4a;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Liguria – Genova – Sez. I n. 1001 del 2016;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Diano Arentino;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Glauco Stagnaro e Gabriele Pafundi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.‒ Con il gravame in epigrafe, l’appellante deduce:

- di essere proprietaria di un terreno agricolo con annesso fabbricato unifamiliare sito in Diano Arentino, via Sant’Antonino n. 5, costituito da un unico piano fuori terra e dotato di tre vani, pervenutole iure hereditatis a seguito del decesso (nel 2001) del signor Giuseppe Enrico Gorlero, che lo aveva realizzato nel 1974;

- di avere ricevuto dal Comune di Diano Arentino (con nota del 20 maggio 2016, n. 1529) la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio per la demolizione del fabbricato, in quanto lo stesso «risulta essere stato eseguito in assenza di titolo abilitativo e, nello specifico, dal raffronto dello stato di fatto con il progetto autorizzato presente in archivio allegato alla licenza di costruzione n. 56/1973 in capo a Gorlero Giuseppe Enrico, emergerebbe che le opere realizzate, consistenti in un fabbricato adibito a civile abitazione, non risultano essere ricadenti all’interno del sedime di nessuno dei due fabbricati a suo tempo autorizzati e che, conseguentemente, trattasi di opere diverse dal predetto titolo e quindi realizzate in totale assenza di titolo abilitativo»;

- che, con l’ordinanza 15 luglio 2016, n. 7, l’Amministrazione comunale le ha ingiunto la demolizione del fabbricato.

- di avere impugnato tale provvedimento innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, il quale, con sentenza n. 1001 del 2016, ha respinto il ricorso.

3.‒ Avverso la sentenza del T.a.r. la signora Maria Teresa Gorlero ha interposto appello, lamentando che il giudice di prime cure non avrebbe considerato che:

- il fabbricato in questione sarebbe stato realizzato nel 1974, e fino al 2015 – per 41 anni – né il Comune né, tantomeno, la Provincia o altre Amministrazioni avrebbero mai sollevato contestazioni in ordine alla sua difformità rispetto alla licenza edilizia del 25 novembre 1973;

- la documentazione prodotta nel giudizio di primo grado smentirebbe l’asserzione secondo cui, prima del 2015, il Comune non avrebbe avuto contezza delle opere abusive, avendo il dante causa dell’odierna appellante segnalato al Sindaco l’inizio dei lavori in data 5 dicembre 1974;

- le opere in difformità (aventi un ingombro volumetrico inferiore a quelle autorizzate) non recherebbero, in concreto, un effettivo pregiudizio all’ordinato assetto del territorio;

- la contestata ingiunzione demolitoria si porrebbe in contrasto con i princìpi, desumibili dalla Costituzione e dal Protocollo Addizionale n. 1 della C.E.D.U., in tema di rispetto della proprietà privata e di giusto equilibrio tra la tutela dell’interesse generale e quella dei privati e dei loro beni;

- il Comune avrebbe trascurato, in violazione degli artt. 3 e 10, della legge n. 241 del 1990, le deduzioni presentate dalla ricorrente;

- non sarebbe stata indicata, nel provvedimento impugnato, l’area oggetto di confisca in caso di mancata spontanea esecuzione dell’ingiunzione demolitoria;

- l’odierna appellante, non essendo identificabile come responsabile dell’abuso commesso, non potrebbe subire gli effetti della confisca paventata dal Comune.

4.‒ Resiste nel presente giudizio il Comune Diano Arentino, chiedendo che l’appello venga respinto.

5.‒ Con ordinanza 28 novembre 2016, n. 5308, la Sezione – «ritenuto, nell’ambito della delibazione propria della presente fase cautelare, che nel bilanciamento degli opposti interessi prevalenti risultano allo stato quelli di parte ricorrente, avuto riguardo in particolare al fatto che la pretesa abusività dell’immobile di cui è stata ingiunta la demolizione risalirebbe a più di quattro decenni addietro all’interno di un Comune di assai piccole dimensioni e per questo, ragionevolmente, ben consapevole della natura e consistenza delle edificazioni presenti sul proprio territorio» – ha sospeso gli effetti della sentenza impugnata, confermando il decreto presidenziale n. 4800 del 25.10.2016

6.‒ All’udienza del 21 dicembre 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1.‒ Con un primo ordine di motivi, l’appellante invoca il principio del legittimo affidamento. Il Comune, prima di ordinare la demolizione dell’opera abusiva, avrebbe dovuto verificare se, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso (il manufatto è stato costruito nel 1974) e per il protrarsi dell’inerzia degli organi preposti alla vigilanza (i quali avevano avuto notizia dell’intervento fin dalla comunicazione di inizio lavori del 5 dicembre 1974), si sia ingenerato un affidamento nel privato, al quale l’immobile è pervenuto in via ereditaria soltanto nel 2001.

1.1.‒ La censura non può essere accolta in forza delle dirimenti considerazioni da ultimo espresse dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9 del 2017.

La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.

Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.

Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.

Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.

Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.

Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.

Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.

Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.

Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può – al contrario – rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).

In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie.

1.2.‒ Nel caso di specie, va pure rimarcato come l’odierna appellante fosse ben consapevole dell’abuso dal momento che, in data 13 gennaio 2015, aveva presentato domanda di accertamento di conformità, proprio sul presupposto della difformità del fabbricato realizzato rispetto a quanto assentito con la licenza edilizia n. 56 del 1973.

1.3.‒ Gli argomenti sopra svolti impongono il rigetto anche dell’ulteriore censura motivazionale, alla cui stregua il provvedimento avrebbe dovuto pronunciarsi sulle osservazioni presentate dalla ricorrente, le quali sono incentrate esclusivamente sulla sussistenza di un affidamento della ricorrente e sulla necessità di una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.

2.‒ L’appellante censura altresì l’erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui non ha accolto il motivo di ricorso incentrato sulla mancata determinazione delle aree che potrebbero formare oggetto di confisca.

2.1.‒ In senso contrario va ribadito ancora una volta l’indirizzo di questo Consiglio di Stato, secondo cui l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2011 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l’atto di accertamento dell’inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4508; sez. VI, 5 gennaio 2015, n. 13; sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5593).

3.‒ L’appellante afferma pure che, non essendo responsabile dell’abuso eseguito dal suo dante causa, la stessa non potrebbe subire gli effetti della confisca.

3.1.‒ Anche tale censura non può essere accolta.

In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, perché quest’ultimo possa andare esente dalla misura consistente nell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), occorre che risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento (Consiglio di Stato, sez. VI, 04/05/2015, n. 2211).

Il proprietario incolpevole, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, deve dunque provare la intrapresa di iniziative idonee a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Tale assunto vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui il nuovo proprietario sia subentrato iure hereditatis nella sfera giuridica del responsabile dell’abuso, continuandone la personalità.

Ebbene, se nella specie può ammettersi la completa estraneità dell’appellante nel momento della realizzazione dell’abuso (risalente al 1974), non può invece negarsi che egli ne abbia avuto conoscenza a partire da un momento ‒ quantomeno quello in cui la stessa ha presentato istanza di regolarizzazione in data 13 gennaio 2015 ‒ in cui ancora sussisteva la possibilità di rimuovere l’abuso.

4.‒ La distinta censura di violazione del diritto convenzionale è inammissibile per genericità.

Sono comunque utili alcune precisazioni.

L’articolo 1 del protocollo addizionale alla Cedu recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».

La disposizione comprende tre distinte regole: «la prima è di carattere generale ed enuncia il principio del rispetto per la proprietà; la seconda concerne la privazione della proprietà e la sottopone a determinate condizioni; la terza riconosce che gli Stati contraenti hanno il diritto, tra l’altro, di controllare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale. Le tre norme tuttavia non sono “distinte” nel senso che non hanno rapporto tra loro. La seconda e la terza norma concernono particolari casi di ingerenza nel diritto al pacifico godimento di un bene e devono pertanto essere interpretate alla luce del principio generale enunciato nella prima norma» (Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, n. 46286/09, § 56).

Secondo la giurisprudenza europea, l’incisione della proprietà privata, oltre che legittima e diretta a perseguire un interesse pubblico, deve essere anche ragionevolmente proporzionata al fine che si intende realizzare.

Nel caso di specie, la misura amministrativa dell’acquisizione al patrimonio comunale, in quanto prevista da norma espressa, è senza dubbio compatibile con il requisito di legalità previsto dalla norma convenzionale.

Sotto altro profilo, l’ingerenza da parte di un’autorità pubblica nel pacifico godimento dei beni è giustificata per la tutela di un interesse generale legittimo, ovvero quello della tutela del territorio.

Da ultimo, l’interessato non sopporta un «onere individuale eccessivo», in quanto egli può scongiurare l’effetto ablativo rimuovendo l’abuso (diversamente opinando, sarebbe agevole aggirare la normativa repressiva, vendendo a terzi il complesso immobiliare dopo la commissione dell’abuso e prima della adozione da parte del Comune del provvedimento di acquisizione gratuita).

5.– L’appello, dunque, va integralmente respinto.

5.1.– Le spese di lite del secondo grado di giudizio seguono la soccombenza, secondo la regola generale e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 7968 del 2016, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite in favore della controparte costituita, che si liquida in € 3.000,00, oltre IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2017, con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Francesco Mele, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere, Estensore

Stefano Toschei, Consigliere

         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Dario Simeoli        Luigi Maruotti