Il test di cessione tra anacronismi normativi e prospettive di riforma
di Oreste PATRONE
Introduzione: le origini dello strumento
Il test di cessione rappresenta uno dei capisaldi della normativa italiana in materia di gestione dei rifiuti. La sua funzione, fin dall’origine, è stata quella di valutare la compatibilità ambientale di un materiale sottoposto a recupero o smaltimento attraverso la misurazione delle sostanze che passano in soluzione a contatto con l’acqua. Esso ha svolto per decenni una funzione di filtro regolatorio.
Tuttavia, a quarant’anni dalla sua prima apparizione nel 1984, inizia a mostrare i segni del tempo.
Il suo carattere statico e le premesse storiche su cui si fonda ne evidenziano l’anacronismo, rendendolo uno strumento sempre meno rappresentativo delle reali condizioni ambientali.
Un limite, quest’ultimo, che merita di essere esplorato nel dettaglio.
Le prime tracce normative si rinvengono nella Deliberazione del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984, che introduce una prova di lisciviazione finalizzata a valutare il comportamento dei rifiuti sottoposti all’azione delle acque meteoriche e dei percolati di discarica, utilizzando come agenti estrattori acqua con pH mediante aggiunta di acido acetico [per simulare condizioni acidificate tipiche dei percolati], e acqua satura di CO2 [per condizioni più prossime alle acque meteoriche].
Tuttavia, è con il D.M. 5 febbraio 1998 che il test assume la sua forma compiuta, secondo la metodica prevista dalla norma UNI EN 12457-2 che prevede l’eluizione in acqua distillata, senza forzature di pH, più rappresentativa delle condizioni ambientali rispetto all’impostazione del 1984. Il decreto, destinato a disciplinare le attività di recupero in procedura semplificata, eleva il test a vero e proprio discrimine giuridico tra materiali cessati dalla qualifica di rifiuti e idonei al riutilizzo o all’utilizzo in recuperi ambientali e rifiuti.
Il legislatore italiano dell’epoca si ispira a esperienze straniere – in particolare al TCLP [Toxicity Characteristic Leaching Procedure, Method 1311], elaborato dall’US EPA nel giugno 1992 sulla base degli studi di Hans van der Sloot, chimico olandese, professore della Vanderbilt Università di Nashville, il quale nel gennaio 1988 aveva pubblicato la ricerca Contaminant Diffusion in Sediments, Soil and Waste Materials – ma ne propone un adattamento semplificato, calibrato sulle esigenze nazionali e facilmente applicabile su scala laboratoriale.
Un criterio superato
Occorre riconoscere il valore storico di questo strumento.
Esso ha garantito per trent’anni una griglia uniforme di riferimento, evitando arbitri e difformità territoriali. Tuttavia, la sua struttura riflette una stagione superata della gestione dei rifiuti, fortemente centrata sulla discarica quale destino prevalente.
Il test si fonda infatti su condizioni statiche e standardizzate [rapporto liquido/solido fisso, tempi di contatto predefiniti, pH controllato], che hanno la finalità di simulare, anche se in modo approssimativo, la lisciviazione di un rifiuto in discarica. Un modello concepito in un’epoca in cui la priorità era ridurre l’impatto dei siti di smaltimento, non promuovere il recupero di materia.
Oggi, al contrario, la disciplina si ispira ai criteri di priorità nella gestione dei rifiuti fissati dall’articolo 179 del D.lgs. 152/2006, che relegano lo smaltimento a opzione residuale, ponendo invece al centro il recupero, il riciclo e la valorizzazione dei materiali. In questo nuovo contesto, il test di cessione – così come concepito – appare inadeguato, fuori tempo, poiché continua a misurare un parametro pensato per la discarica, che non riflette più il reale destino dei materiali e offre risultati facilmente condizionabili da minime variazioni operative ma che, soprattutto, rischia di trasformarsi in un ostacolo all’impiego di soluzioni tecnologicamente sicure ma non conformi ai rigidi limiti tabellari.
Le principali criticità tecniche e giuridiche
Le criticità dello strumento possono essere riassunte in punti:
1. Scarsa rappresentatività
Lo divideremo in due sottopunti:
1.1. Il test di cessione come quello previsto dalla norma UNI EN 12457-1 fornisce una misura “istantanea” del rilascio di contaminanti da materiali solidi in condizioni controllate. Tuttavia, questi test non rappresentano adeguatamente l’evoluzione nel tempo del fenomeno del rilascio né le condizioni reali d’impiego, dove il materiale può essere esposto a percolazione continua, cicli asciutto/bagnato e ad alterazioni chimico-fisiche.
Per una valutazione ambientale più realistica, sarebbe opportuno integrare o sostituire tali test con metodologie più rappresentative, come ad esempio i test di percolazione in colonna, che simulano il passaggio continuo di liquidi, o i test di lisciviazione in situ, che osservano il comportamento del materiale nel contesto reale.
A supporto di questa tesi, Yazoghli-Marzouk e altri hanno condotto test di lisciviazione sul campo per valutare il rilascio di sostanze da sabbie di fonderia utilizzate come sottofondo stradale. I risultati, raccolti nello studio “Recycling foundry sand in road construction–field assessment” evidenziano che i test di laboratorio risultano conservativi rispetto alle condizioni osservate sul campo, rafforzando la necessità di approcci più aderenti alla realtà.
1.2. La riduzione dei campioni granulari alle dimensioni indicate dalla UNI EN 12457-2 [minore di 4 mm] comporta inevitabilmente la formazione di una frazione fine in quantità non trascurabile. Questa modifica artificiale della granulometria altera la distribuzione originaria del materiale e, di conseguenza, il suo comportamento nei confronti della lisciviazione.
Il motivo risiede in un principio fisico elementare: più piccoli sono i frammenti, maggiore è la superficie esposta all’azione del fluido lisciviante in rapporto al volume del solido. In altri termini, ridurre le dimensioni di un materiale significa moltiplicarne la superficie specifica e quindi amplificare le possibilità di rilascio dei contaminanti, una sovrastima che difficilmente corrisponde alle condizioni reali in cui il materiale si troverebbe in discarica, in opera o in riutilizzo ambientale.
La questione è stata anche oggetto d’interpello nell’aprile 2024, suggerendo la possibilità che quanto riportato al punto 4.3.2. della UNI è cioè che “in nessun caso si deve macinare finemente il materiale” potesse essere inteso nei termini di una eliminazione della frazione più fine del materiale. Il MASE, nondimeno, alla luce di una serie di considerazioni per il dettaglio delle quali si rimanda all’interpello, ha ritenuto che tutte le frazioni granulometriche derivanti dal trattamento debbano essere prese in considerazione nel test.
2. Irrigidimento normativo e procedurale
Le criticità intrinseche del test di cessione – legate alla sua scarsa rappresentatività delle condizioni reali e alla facilità con cui i risultati possono essere condizionati da variabili di laboratorio – assumono un peso ancora maggiore se si considera la sua evoluzione sul piano giuridico. Quello che era nato come strumento sperimentale di supporto tecnico si è trasformato, per effetto della normazione e dell’utilizzo intensivo da parte delle amministrazioni, in un criterio assoluto di legittimità.
Il paradosso è evidente. Un test, che già di per sé offre una fotografia parziale e artificiale del comportamento ambientale dei materiali è oggi divenuto la linea di confine che separa ciò che può essere recuperato da ciò che deve essere smaltito. Il risultato è che rifiuti o materiali con impatto ambientale trascurabile possono essere esclusi dai circuiti di recupero per superamenti marginali dei limiti tabellari, con effetti distorsivi rispetto ai principi di gerarchia nella gestione dei rifiuti e di proporzionalità dell’azione amministrativa.
3. Anacronismo normativo
L’attività di normazione tecnica, a livello europeo e internazionale, non si è certo arrestata nel 2004 con la pubblicazione dell UNI EN 12457. Essa ha continuato a svilupparsi nella direzione di test più evoluti, capaci di restituire un quadro più fedele del comportamento dei materiali nelle reali condizioni di utilizzo. La recente UNI EN 16637-3:2024, che recepisce la EN 16637-3:2023, ed è in grado di simulare condizioni dinamiche e prolungate, molto più vicine ai processi reali, preservando l’integrità del campione, rappresenta un esempio di questo avanzamento metodologico.
Il confronto tra i due approcci evidenzia con chiarezza l’anacronismo di una disciplina che continua a fare affidamento su una metodologia ormai superata, elevata a criterio legale assoluto e rimasta tale per inerzia amministrativa, quando già da tempo il progresso tecnico ha offerto strumenti più rappresentativi e affidabili.
Conclusioni: un cambio di paradigma necessario
Il test di cessione ha svolto una funzione storicamente rilevante, offrendo un parametro univoco in un’epoca di transizione. Ma oggi appare un istituto anacronistico, residuo di un modello di gestione incentrato sulla discarica, che rischia di produrre più vincoli burocratici che benefici ambientali.
Sarebbe auspicabile, da parte dell’ordinamento italiano, un percorso di superamento del test statico come unico criterio. Non si tratta di abolirlo, bensì di ricondurlo al ruolo che gli compete: uno strumento preliminare, da integrare con test dinamici e valutazioni sito-specifiche.
Solo così sarà possibile garantire una disciplina realmente rappresentativa, scientificamente fondata e giuridicamente solida, capace di accompagnare la transizione verso un modello di gestione dei rifiuti finalmente moderno.