Cass. Sez. III n. 29069 del 8 luglio 2015 (Ud 20 gen 2015)
Pres. Squassoni Est. Gentili Ric. Dappi
Rifiuti.Nozione di disfarsi

Certamente indice rivelatore dell'intenzione di disfarsi - ove essa non si sia sostanziata, in modo di per sé incompatibile con un altro diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo su detti beni - potrà  essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i detti materiali  sono depositati. E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all'interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l'intenzione di disfarsene.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 29 ottobre 2013 il Tribunale di Tivoli, Sezione distaccata di Palestina, ha condannato D.N. alla pena di Euro 2.000,00 di ammenda, avendolo riconosciuto responsabile, previa concessione delle attenuanti generiche, della violazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, per avere abbandonato, in qualità di legale rappresentante della DENEDA Srl, rifiuti speciali non pericolosi su di un terreno da lui detenuto, nella predetta qualità, in regime di comodato.

Ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza il D., tramite il suo difensore dell'epoca, affidandolo a tre motivi.

Col primo di essi il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla qualifica di rifiuto attribuita ai materiali rinvenuti sul terreno detenuto dalla Società amministrata dal D..

Col secondo è, invece, dedotto il vizio procedimentale conseguente alla revoca della ammissione dei testi della difesa dell'imputato, disposta dal Tribunale con ordinanza dibattimentale del 9 aprile 2013 a seguito della mancata citazione dei testi medesimi per la loro comparizione alla indicata udienza.

Con terzo motivo è dedotta la carenza logica della motivazione della sentenza impugnata, relativa sia alla dimostrazione dell'elemento oggettivo del reato che di quello soggettivo, tale da determinarne la nullità.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, essendo risultato infondato, non è, pertanto, meritevole di accoglimento.

Col primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la erroneità della qualificazione di rifiuto attribuita dal giudice di prime cure ai materiali rinvenuti dagli agenti della Polizia municipale di Olevano Romano su di un terreno nella disponibilità del ricorrente.

Giova, prima di esaminare la correttezza o meno della qualificazione operata dal Tribunale di Tivoli, rilevare che, secondo quanto riportato in fatto nella sentenza impugnata, il materiale in questione (costituito da: cabine telefoniche rimosse, pali telefonici in metallo anch'essi rimossi dal loro originario luogo di impianto, fili e cabine elettriche, bombole di gas esaurite, pedane di legno, ferraglia, pneumatici in disuso, fresatura d'asfalto, bidoni di catrame, parti di veicoli in disuso, corrugati plastici e materiale bituminoso vario) appariva abbandonato in modo incontrollato sul terreno senza alcun accorgimento volto ad evitare la contaminazione del suolo.

Tanto premesso rileva la Corte che del concetto di rifiuto il legislatore ha dettato, al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. a), una precisa definizione normativa, affermando che deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.

Trattasi, perciò, di una definizione che non si caratterizza per la individuazione di elementi intrinseci di determinati oggetti o sostanze che, se presenti, ne determinano la attribuzione della qualificazione di rifiuto, quanto, piuttosto, di una definizione di tipo funzionale, essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo.

E' di tutta evidenza che, in assenza di previsioni normative che prevedano, appunto, in determinati casi e con riferimento a determinate sostanze uno specifico obbligo in capo al detentore in ordine al loro smaltimento, prevedendone eventualmente anche le modalità di effettuazione, sarà compito dell'interprete, in relazione alla generalità delle altre sostanze od oggetti, evidenziare se nella condotta del detentore di esse sia riscontrabile, in atto od in potenza, il concetto del "disfarsene" in ragione del quale è legittimo attribuire ai predetti beni la nozione di rifiuto.

Certamente indice rivelatore di tale intenzione - ove essa non si sia sostanziata, in modo di per sè incompatibile con un altro diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo su detti beni - potrà essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i detti materiali sono depositati.

E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all'interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l'intenzione di disfarsene.

Nel caso in esame il Tribunale di Tivoli del tutto legittimamente ha ritenuto che i beni sopra descritti, abbandonati alla rinfusa ed in stato di degrado progressivamente ingravescente, fossero stati lasciati dall'odierno ricorrente con la chiara intenzione di disfarsene e non, come invece sostenuto dal D., per disporre di essi per un successivo riutilizzo.

D'altra parte la natura stessa di buona parte dei predetti beni è tale da non consentirne, se non a seguito di un articolato processo di ricondizionamento, certamente non in atto al momento dell'intervento della Polizia municipale descritto nella impugnata sentenza, un successivo riutilizzo.

Quanto al secondo motivo di impugnazione, deve rilevarsi che, effettivamente, sebbene sia tuttora presente nella giurisprudenza di questa Corte un orientamento, non sporadicamente sostenuto, secondo il quale, essendo il termine stabilito dal giudice del dibattimento per la citazione dei testimoni inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti (se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o forza maggiore), esso ha, pertanto, natura perentoria, sicchè, secondo tale orientamento, ove la parte non effettui la citazione dei testimoni dei quali intende chiedere l'ammissione entro il predetto termine, essa decade dal diritto di assumerne la testimonianza (Corte di cassazione Sezione 2 penale, 27 marzo 2013, n. 14439; idem Sezione 3 penale, 20 gennaio 2009, n. 2103), secondo quello che appare essere, invece, il più condivisibile indirizzo, è nulla la sentenza emessa all'esito di giudizio dibattimentale nel quale il giudice abbia revocato la ammissione dei testi indicati nella lista presentata dalla difesa senza motivare sulla loro superfluità (Corte di cassazione, Sezione 5 penale, 20 dicembre 2013, n. 51522).

Osserva, infatti, la Corte che l'art. 495 penale consente effettivamente al giudice di revocare il provvedimento con il quale erano state ammesse le prove richieste da ciascuna delle parti ma ciò solo in quanto le stesse siano apparse, dato lo sviluppo preso dell'istruttoria, essere divenute superflue.

Tale superfluità, ove si intenda dare al potere concesso al giudice un contenuto non di sanzione della negligenza della parte interessata alla citazione ma funzionale al corretto svolgimento del processo ed al raggiungimento dello scopo di questo, cioè l'accertamento della esistenza o meno della responsabilità dell'imputato, non può essere desunta sic et simpliciter dal fatto che la parte che vi aveva interesse abbia omesso di citare i testi la cui ammissione era stata da essa richiesta e dal giudice ammessa sull'ovvio presupposto della sua almeno potenziale utilità al perseguimento dell'accertamento dei fatti; nè può ritenersi, onde giustificare l'applicazione di una sanzione in ragione dell'uso non conforme alla buona fede processuale degli strumenti offerti dal codice di rito, che attraverso detta omissione la parte possa lucrare indebitamente sulla ingiustificata durata del processo, sì da perseguire, o quanto meno cercare di perseguire, surrettiziamente i benefici che le potrebbero derivare dalla dilatazione dei tempi del giudizio.

Infatti, laddove il rinvio della attività processuale sia dovuto, come nel caso ipotizzato, alla condotta della parte, è consentito al giudice di disporre, a seconda della necessità, ora la sospensione del termine della prescrizione (Corte di cassazione, Sezione 2 penale 8 gennaio 2014, n. 293, in fattispecie in cui il rinvio della udienza era stato determinato proprio dalla mancata citazione del teste della difesa), ora quella della durata della custodia cautelare (Corte di cassazione, Sezione 1 penale, 25 marzo 2008, n. 12697).

Laddove si volesse, poi, ritenere, come ancora di recente sostenuto da questa stessa Sezione, che la mancata citazione del teste sia comportamento che possa essere legittimamente interpretato quale volontà della parte di rinunziare alla sua escussione (così, infatti: Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 15 maggio 2014, n. 20267), il giudice, oltre a dover valutare ai fini del riscontro di tale effettiva volontà la sistematica reiterazione di tale omissione e non la sua mera episodicità, sicchè essa sia idonea a porre in discussione il valore in sè costituzionalmente tutelato della ragionevole durata del processo, dovrà, prima di dichiarare la parte decaduta dalla prova per rinunzia, acquisire in ogni caso l'espressione del consenso dell'altra parte come testualmente richiesto al fine di cui sopra dall'art. 495 c.p.p., comma 4 bis, ben potendo quest'ultima essere a sua volta interessata alla escussione del teste addotto da controparte.

Vi è, tuttavia, da osservare quanto al caso di specie che il descritto vizio del processo, cioè la immotivata pronunzia sulla decadenza dalla prova ammessa è da considerare vizio che produce una nullità di ordine generale che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, con la conseguenza che, in caso contrario, essa deve ritenersi sanata (Corte di cassazione, Sezione 5 penale, 20 dicembre 2013, n. 51522).

Poichè nel caso in esame il predetto vizio è stato dedotto solo in sede di ricorso per cassazione, la relativa censura è inammissibile in quanto la medesima è stata formulata intempestivamente.

Quanto al terzo motivo di censura, va osservato che lo stesso è tutto argomentato in relazione a profili di fatto (quali lo stato dei materiali depositati sul terreno nella disponibilità del prevenuto, l'epoca del loro deposito, la riferibilità degli stessi all'attività da quello svolta) che sono di tutta evidenza inammissibili in questa sede di legittimità; parimenti inammissibile, data la sua evidente infondatezza, è l'argomento relativo alla mancata dimostrazione dell'esistenza dell'elemento soggettivo a carico del D..

Posto che lo stesso D. rileva di avere depositato i materiali in discussione lì dove gli stessi sono stati rinvenuti e tenuto conto della natura contravvenzionale del reato a lui contestato, non è ragionevolmente discutibile che quello nel tenere il comportamento addebitatogli abbia, quantomeno, negligentemente omesso di dotarsi della necessaria autorizzazione rilasciata dagli organi competenti, in ciò restando integrati gli elementi, si ribadisce quanto meno, di una condotta colposa.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2015.