Nuova pagina 1

Sez. 3, Sentenza n. 5462 del 01/12/2004 Ud. (dep. 14/02/2005 ) Rv. 230845
Presidente: Papadia U. Estensore: Franco A. Relatore: Franco A. Imputato: Boscacci. P.M. Fraticelli M. (Diff.)
(Annulla senza rinvio, App. Milano, 1 Luglio 2003)
BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - IN GENERE - Reato di cui all'art. 163 del D.Lgs. n. 490 del 1999 - Realizzazione di una cava in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Configurabilità - Fondamento.

Nuova pagina 2

Massima (Fonte CED Cassazione)
In tema di tutela delle zone di particolare interesse ambientale, la realizzazione di una attività di cava, consistente in lavori di scavo del terreno, di sbancamento e successivo riempimento, con formazione di cumuli in continua espansione volumetrica, integra il reato di esecuzione di lavori senza autorizzazione in zone sottoposte a vincolo paesistico, determinando una continua modificazione dei luoghi astrattamente idonea a ledere il bene ambientale.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPADIA Umberto - Presidente - del 01/12/2004
Dott. VITALONE Claudio - Consigliere - SENTENZA
Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Consigliere - N. 2202
Dott. GRASSI Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - N. 40385/2003
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Boscacci Fabio, nato a Caiolo il 16 novembre 1949;
avverso la sentenza emessa il 1 luglio 2003 dalla corte d'appello di Milano;
udita nella pubblica udienza del 1 dicembre 2004 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 19 dicembre 2002, il giudice del tribunale di Sondrio dichiarò Boscacci Fabio colpevole dei reati di cui: a) all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, 146, lett. c), e 151 decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, per avere, in assenza di concessione edilizia e di autorizzazione ambientale, realizzato in zona sottoposta a vincolo paesistico una attività di cava esercente l'estrazione di sabbia e ghiaia su una superficie di mq. 1000; e) agli artt. 31, co. 1, 2 e 3, 51, co. 1, lett. a), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, per avere effettuato operazioni di recupero di rifiuti non pericolosi (rifiuti derivanti da demolizioni e scarti di cava) ricorrendo alle procedure semplificate di cui agli artt. 31 e 33 cit, senza presentare la prescritta comunicazione di inizio attività alla provincia, e lo condannò alla pena di giorni 5 di arresto ed euro 10.400,00 di ammenda, con l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi e la sospensione condizionale della pena.
La corte d'appello di Milano, con sentenza del 1 luglio 2003, convertì la pena detentiva in euro 1.500,00 di ammenda (pari ad euro 300,00 per ogni giorno di arresto) confermando nel resto la sentenza di primo grado.
L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
a) violazione di legge, motivazione meramente apparente, travisamento dei fatti e degli accertamenti istruttori in relazione all'autore delle opere. Ricorda che con il primo motivo di appello aveva contestato l'accertamento della sua responsabilità come autore dei fatti contestati, osservando che egli all'epoca della contestazione (26/7/2000) aveva appena iniziato l'attività in loco, affittandola da terzi e che tutti i pubblici ufficiali accertatori avevano riferito che in occasione dei sopralluoghi lo scavo non solo era da tempo terminato ma anche già oggetto di ricolmatura. Il capo di imputazione sub A), del resto, si riferisce esclusivamente alla escavazione mentre mai gli è stato contestato il riempimento con gli scarti di cava provenienti da una vicina valle, che concerne il solo capo C) della imputazione. La corte d'appello ha lo ha quindi implicitamente ritenuto autore dello scavo, sebbene nessuno dei testi, ivi compresi i pubblici ufficiali, lo abbia visto all'opera e sebbene tutti abbiano dichiarato che lo scavo era preesistente al momento del loro intervento e già parzialmente colmato. Non trova quindi riscontro nella istruttoria la affermazione secondo cui i testi avrebbero assistito ad uno scavo ancora in essere, sicché la motivazione sul punto è meramente apparente. Del resto, lo stesso capo di imputazione parla di lavori accertati il 26/7/2000, sospesi. Pertanto, i lavori di scavo contestati nel capo A), per i quali è intervenuta sentenza di condanna, erano sicuramente terminati prima del giugno 2000, ed a quell'epoca si riferiscono le contestazioni, allorché i lavori erano già sospesi. Nessuno quindi ha visto all'opera il Boscacci relativamente allo scavo, che quindi ben poteva essere stato operato dalla precedente gestione del silos, prima dell'inizio della sua attività nel marzo 2000.
b) violazione di legge; d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, artt. 10 ss., 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e art. 2, terzo comma, cod. pen.; mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato edilizio ai sensi della previgente e vigente normativa. Osserva che la attività di escavazione di cui al capo A), svolta in una area destinata a silos in essere da moltissimi anni, non era soggetta a concessione edilizia sia per la tipologia del lavoro sia per l'evidente temporaneità e provvisorietà delle formazioni di materiale. I buchi del resto sono risalenti ad una epoca ben precedente al suo insediamento, sicché la semplice attività di ricolmatura e svuotamento non è soggetta a concessione edilizia ma rientra nella normale attività imprenditoriale ivi esercitata. In ogni caso, alla stregua del d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, nel frattempo entrato in vigore, la concessione edilizia e il permesso di costruire non sono più necessari per la semplice attività di scavo. Ai sensi degli artt. 6, 10 e 22 del d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, infatti, per procedere ad uno scavo è sufficiente la semplice denunzia di inizio di attività, anche in zona soggetta a vincolo. Sul punto la corte d'appello ha omesso qualsiasi adeguata motivazione.
c) violazione di legge; artt. 146, lett. c), 151 e 152 decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490; mancanza o insufficienza della motivazione. Lamenta che la corte d'appello non ha motivato sul rigetto del motivo di appello con cui si eccepiva che per la realizzazione dello scavo in questione non era necessaria la autorizzazione ambientale. La corte ha infatti erroneamente ritenuto che, per il solo fatto di trovarsi in una zona protetta, sia sempre necessaria la autorizzazione ambientale per qualsiasi tipo di attività. La autorizzazione invece non occorre quando non vi è alterazione dello stato dei luoghi o pericolo di lesione del bene ambientale protetto, come appunto si verificava nel caso di specie, data la preesistente assoluta e da tempo avvenuta compromissione dello stato dei luoghi. La corte d'appello avrebbe quindi dovuto motivare sul perché la attività asseritamente posta in essere dall'imputato avesse recato pregiudizio all'esteriore aspetto di protezione dei beni tutelati, posto che non è stata toccata la inesistente vegetazione e l'attività posta in essere è identica a quella esercitata quotidianamente anche dai titolari del silos vicino.
d) violazione di legge: art. 1, comma 17, legge 21 dicembre 2001, n. 443 ed art. 14 legge 178/2002; mancato esame di parte del motivo di appello; mancanza o insufficienza della motivazione. Ricorda che con il quarto motivo di appello era stato eccepito come i testi avessero chiarito che la pressoché totalità del deposito di materiale di cui al capo C) era costituita da scarti di cava, per circa 3-4.000 mc., oltre a pochi mc. di residui di demolizione. Tutti i testi hanno constatato la presenza del materiale nel silos, ma nessuno chi e quando l'avesse portato in loco. Solo il dipendente dell'imputato, ritenuto compiacente, ha ammesso di avere trasportato scarti di cava nel 2000 per ordine del Boscacci, dichiarando però che i pochissimi residui di demolizione si trovavano già nel silos prima che il Boscacci cominciasse ad operarvi. La corte d'appello ha completamente omesso di esaminare questa censura relativa alla non attribuibilità al Boscacci del recupero e deposito dei residui di demolizione, ed ha omesso di motivare sul suo implicito rigetto, dando così per scontato che siccome i residui si trovavano in loco ce li aveva trasportati il Boscacci. E ciò sebbene dalle foto risulti che essi non servivano per la ricolmatura dello scavo, ma erano depositati in tutt'altra zona. La imputazione e la condanna, quindi, potevano in ipotesi riferirsi solo al deposito principale, costituito dagli scarti di cava. Erroneamente poi la corte d'appello ha escluso che a tali scarti di cava fosse applicabile la cd. "legge Lunardi" e ciò per il motivo che non si trattava di materiali provenienti dalle "grandi opere". Si tratta però di una interpretazione erronea, giacché la disposizione non è limitata alle sole opere ivi indicate. Se così non fosse si dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per la irrazionale disparità di trattamento che si verificherebbe in favore delle grandi opere ed a danno di quelle piccole. In ogni caso, con l'atto di appello era stato ricordato che, secondo l'unico teste sentito sul punto, il materiale in questione veniva utilizzato dal Boscacci per fare piazzali o strade. Ora, l'art. 14 della legge 178/2002, di conversione del d.l. n. 138/2002, esclude dalla nozione di rifiuto le sostanze utilizzabili in analogo o diverso ciclo produttivo e di consumo senza subire, come nella specie, alcun preventivo intervento di trattamento. La corte d'appello ha completamente omesso di esaminare sotto questo profilo il motivo di appello e non ha motivato sul di esso.
e) violazione di legge; art. 4 legge 12 giugno 2003, n. 134; omessa o insufficiente motivazione in ordine alla conversione della pena detentiva. Lamenta che la corte d'appello ha convertito la pena detentiva in pecuniaria fissando un ragguaglio di euro 300,00 per giorno di detenzione, in considerazione delle condizioni patrimoniali e dei redditi derivanti dalla attività imprenditoriale dell'imputato. Senonché non solo la corte d'appello ha omesso di valutare la condizione economica del nucleo familiare dell'imputato, ma soprattutto non si comprende come abbia potuto valutare le condizioni patrimoniali ed i redditi della sua attività dal momento che in atti non c'era la minima traccia di tali elementi. La motivazione sul punto è quindi inesistente o meramente apparente. MOTIVI DELLA DECISIONE
Per quanto riguarda il reato di cui all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il secondo, ed assorbente, motivo è fondato. E difatti, la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato il principio che "l'attività di apertura e coltivazione di cava non richiede il preventivo rilascio della concessione edilizia, non essendo subordinata al preventivo controllo dell'autorità comunale, ma la stessa deve svolgersi nel rispetto della pianificazione territoriale comunale, configurandosi, in difetto, ovvero in caso di svolgimento della stessa in zona non consentita, la violazione dell'art. 20 lett. a) della legge 28 febbraio 1985 n. 47)" (Sez. 3^, 21 marzo 2002, Guida, m. 222.415;
Sez. Un., 31 ottobre 2001, De Marinis, m. 220.219; Sez. 3^, 1 dicembre 1995, Mazzocco, m. 203.552); e che "per l'apertura e la coltivazione di una cava non è richiesta la concessione edilizia del sindaco sicché non è configurarle il reato di cui all'art. 20, comma primo lett. b) legge 28 febbraio 1985, n. 47; ciò in considerazione del fatto che in materia di cave e torbiere l'autorità comunale non ha potere di controllo, ne' sotto forma di autorizzazione, ne' di concessione, perché l'attività urbanistica è strettamente correlata agli insediamenti sul territorio e, per quanto questi possano diversificarsi, è certo che non è tale una attività estrattiva" (Sez. 3^, 1 ottobre 1996, Monitoro, m. 206.472).
Nella specie, pertanto, il contestato reato di cui all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, non era configurabile, mentre non è stato ne' ipotizzato ne' contestato che la attività si svolgesse in zona non consentita dalla pianificazione territoriale e che fosse quindi configurabile il reato di cui all'art. 20, lett. a), della legge 28 febbraio 1985, n. 47. La sentenza impugnata deve quindi essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (capo A) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Per quanto riguarda invece il reato di cui agli artt. 151 e 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, è innanzitutto infondato il terzo motivo perché, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, la contravvenzione di cui all'art. 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 costituisce un reato di pericolo, la cui offensività consiste nell'attitudine dell'opera, alla stregua di una valutazione ex ante, di porre in pericolo il bene protetto (Sez. 3^, 13 febbraio 2003, Abbate, m. 224.896). In altri termini, il reato di cui all'art. 163 cit. ha natura di reato di pericolo astratto e, pertanto, per la sua configurabilità non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendosi escludere dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici, atteso che il legislatore, imponendo la necessità dell'autorizzazione ha inteso assicurare un'immediata informazione e la preventiva valutazione da parte della P.A. dell'impatto sul paesaggio di interventi intrinsecamente capaci di comportare modificazioni ambientali e paesaggistiche, in quanto la fattispecie incriminatrice è volta a tutelare sia l'ambiente sia, strumentalmente e mediatamente, l'interesse a che la P.A. proposta al controllo venga posta in condizioni di esercitare efficacemente e tempestivamente detta funzione, così che la salvaguardia del bene ambiente viene anticipata mediante la previsione di adempimenti formali finalizzati alla protezione finale del bene sostanziale (Sez. 3^, 25 febbraio 2003, Greco, m. 224.725; Sez. 3^, 7 febbraio 2003, Carparelli, m. 224.469). Ed è indubbio che l'esercizio di una cava è una attività astrattamente idonea a pregiudicare il bene ambientale e che quindi, per il suo esercizio in zone vincolate, occorre la preventiva autorizzazione della competente autorità (Sez. 3^, 1 ottobre 1996, Locatelli, m. 206.472; Sez. 3^, 16 aprile 1996, Buttitta, m. 205.455).
È infondato anche il primo motivo con il quale si eccepisce che il ricorrente non sarebbe stato l'autore dei fatti contestati, avendo appena iniziato la attività in loco ed essendosi quindi limitato soltanto ad attività di ricolmatura delle buche e non anche ad attività di escavazione, alla quale si riferisce esclusivamente il capo di imputazione. Ed infatti, in primo luogo il capo di imputazione parla in generale di "attività di cava" e quindi comprende non solo la escavazione ma anche la movimentazione del materiale e la eventuale ricolmatura delle zone scavate. In secondo luogo, la corte d'appello, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha accertato che il Boscacci svolse nel luogo sin dal 17 febbraio 2000 una attività di cava consistente sia in lavori di scavo del terreno, sia in lavori di sbancamento e successivo riempimento e con formazione di cumuli in continua espansione volumetrica. Del tutto correttamente, quindi, è stato ritenuto che questa attività svolta dall'imputato necessitava di autorizzazione ambientale in quanto la stessa determinava (con gli scavi, i riempimenti e la formazione di cumuli) continue modificazioni dei luoghi e quindi era astrattamente idonea a ledere il bene ambientale. In ordine al reato di cui agli artt. 151 e 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, pertanto, il ricorso deve essere rigettato. Per quanto concerne il reato di cui agli artt. 31 e 51, primo comma, lett. a), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, il quarto motivo è fondato sotto entrambi i profili dedotti.
Innanzitutto, invero, per quanto concerne i residui di costruzione e di demolizione, l'imputato, con il quarto motivo di appello, aveva eccepito che la quasi totalità del materiale depositato era costituito da scarti di cava mentre solo pochi metri cubi consistevano in residui di demolizione situati in tutt'altra zona e che doveva ritenersi altresì accertato che i detti residui di demolizione si trovassero sul posto ancor prima dell'arrivo del Boscacci, che quindi non era stato l'autore del loro recupero e del loro deposito. Orbene, effettivamente la corte d'appello ha completamente omesso di esaminare questa eccezione e la ha implicitamente rigettata senza alcuna motivazione, essendosi limitata ad affermare che i residui erano pacificamente esistenti in quel sito, ma non ponendosi nemmeno il problema da chi vi fossero stati depositati. Ed invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, il reato in questione non è integrato dal comportamento omissivo di chi ometta di sgomberare un luogo da rifiuti ivi depositati illegittimamente da altri prima che egli avesse la disponibilità del luogo stesso.
Per quanto riguarda gli scarti di cava, la sentenza impugnata è incorsa in un errore di diritto laddove ha affermato che nella specie non sarebbe applicabile l'art. 17 della cd. Legge Lunardi, la quale riguarderebbe solo i materiali da scavo provenienti dalle "grandi opere". E difatti la cd. legge obiettivo 21 dicembre 2001, n. 443 (recante Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive) contiene all'art. 1, comma 17, una disposizione che non ha natura di norma di delegazione, ed è quindi immediatamente applicabile, ed anzi applicabile con effetto retroattivo in quanto norma di interpretazione autentica, la quale stabilisce che "il comma 3, lettera b), dell'articolo 7 ed il comma 1, lettera f-bis) dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 22 del 1997, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall'ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti". È di tutta evidenza che si tratta di una norma interpretativa di carattere generale, che non si riferisce affatto alle sole "grandi opere" indicate nella legge di delegazione ma che è immediatamente applicabile a tutti i tipi di terre e rocce da scavo, indipendentemente dal tipo di opera e di attività cui sono collegati (cfr. Sez. 3^, 11 febbraio 2003, Mortellaro, m. 224.721;
Sez. 3^, 19 febbraio 2003, Cavallaio, m. 224,481). E che questa sia stata la volontà del legislatore, del resto, emerge anche dalla tecnica legislativa utilizzata, ossia dall'aver emanato una norma interpretativa che incide in via generale sulle definizioni e classificazioni dei rifiuti agli affetti della applicazione del d. lgs. 5 febbraio 1997, n, 22, e non già una semplice norma di deroga per i lavori e le opere indicate nella legge 21 dicembre 2001, n. 443.
La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata anche relativamente al reato di cui agli artt. 31 e 51 d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (capo C) con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte d'appello di Milano, che si uniformerà ai principi dianzi enunciati.
È infine fondato anche il quinto motivo relativo alla determinazione del criterio di conguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria utilizzato dalla corte d'appello. E difatti, ai sensi dell'art, 53, secondo comma, legge 24 novembre 1981, n. 689, come sostituito dall'art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, in caso di sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria, il giudice, per determinare il valore giornaliero di pena pecuniaria cui può essere assoggettato l'imputato, deve tener conto "della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare", con un minimo di euro 38,00 ed un massimo di euro 380,00 per giorno di pena detentiva. Nella specie la corte d'appello ha fissato l'ammontare giornaliero in euro 300,00 per ogni giorni di arresto, in considerazione "delle condizioni patrimoniali e dei redditi derivanti dalla sua attività imprenditoriale". Senonché, a parte il fatto che è stato completamente omesso l'esame della condizione economica del nucleo familiare dell'imputato, si tratta di una motivazione apodittica e meramente apparente perché non risulta sulla base di quali elementi concreti la corte d'appello abbia potuto valutare i redditi imprenditoriali e le condizioni economiche dell'imputato, dal momento che non viene fatto alcun riferimento ad un qualche elemento concreto al quale la corte abbia agganciato la sua valutazione. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio anche in ordine al criterio di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (capo A) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Annulla la stessa sentenza in relazione al reato di cui agli artt. 31 e 51 d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e relativamente alla determinazione della pena e rinvia ad altra sezione della corte d'appello di Milano.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2005