Cass. Sez. III n. 5174 del 6 febbraio 2024 (CC 27 ott 2023)
Pres. Gentili Rel. Zunica Ric. Contessa ed altri
Urbanistica.Legittimità ordine di demolizione e irrilevanza delle lungaggini nella definizione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali

Le lungaggini nella definizione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali aventi ad oggetto la verifica delle natura abusiva delle opere non valgono a incidere sulla legittimità degli ordini di demolizione, fondati su sentenze e decreti penali di condanna irrevocabili, e, dall’altro, che il ritardo nell’esecuzione delle demolizioni non legittima l’affidamento del privato circa l’esistenza di una sanatoria silente ex post delle opere risultate abusive, anche rispetto a coloro che sono subentrati nella posizione del condannato. Inoltre l’ordine di demolizione, essendo privo di finalità punitive, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981, che riguarda soltanto le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.


RITENUTO IN FATTO 

       1. Con ordinanza del 15 maggio 2023, il G.I.P. del Tribunale di Foggia, quale giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta avanzata nell’interesse di Raffaela Contessa, Lucia Giagnorio, Giuseppe Giagnorio e Vincenza Giagnorio, quali eredi di Matteo Giagnorio, marito di Raffaela Contessa e padre dei Giagnorio, volta a ottenere la revoca o la sospensione dell’ordine di demolizione impartito con due sentenze (n. 144/1997 e 4182/2016) e un decreto penale di condanna (n. 485/2000) emessi nei confronti di Matteo Giagnorio e aventi ad oggetto il compimento di vari abusi edilizi nel Comune di Lesina.
 2. Avverso l’ordinanza del Tribunale pugliese, Raffaela Contessa, Lucia Giagnorio, Giuseppe Giagnorio e Vincenza Giagnorio, tramite il loro comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con il primo, la difesa deduce il difetto di motivazione del provvedimento impugnato rispetto alle censure dedotte, riguardanti: la pendenza del giudizio dinanzi al Tar Puglia sull’ordinanza n. 36 del 27 novembre 2020 del Comune di Lesina, le mancate notifiche dell’ingiunzione a demolire ai presunti eredi, la violazione degli art. 3-7 della legge n. 241 del 1990 e 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001 e il difetto di legittimazione passiva dei soggetti ingiunti.
Con il secondo motivo, è stata eccepita la mancata assunzione di una prova decisiva, con riferimento all’omessa esecuzione di una perizia volta a verificare l’insistenza o meno degli immobili abusivi su area demaniali vincolate, essendo così mancato un approfondimento tecnico su aspetti essenziali della vicenda.
         Con il terzo motivo, i ricorrenti contestano l’inosservanza degli art. 38, comma 4, della legge n. 47 del 1985, 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, 3-7 della legge n. 241 del 1990, rilevando che il giudice dell’esecuzione sulla scorta della mera trasposizione di una massima dell’orientamento minoritario della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la revoca o la sospensione dell’ordine di demolizione sono inibite dalla pendenza di un ricorso in sede giurisdizionale avverso il rigetto della domanda di condono edilizio, mentre l’indirizzo ermeneutico maggioritario è nel senso di imporre al giudice l’onere di valutare la compatibilità dell’ordine di demolizione con i provvedimenti eventualmente emessi dall’Autorità o dalla giurisdizione amministrativa.
Nel caso di specie, in data 2 dicembre 2020, il Comune di Lesina faceva pervenire il provvedimento di diniego della domanda di condono che i chiamati all’eredità, ma non ancora eredi, di Matteo Giagnorio impugnavano dinanzi al T.A.R. della Puglia, esponendo una serie di puntuali doglianze sul punto, per cui era plausibile un accoglimento del ricorso in tempi ragionevolmente brevi. 
A ciò si aggiunge che i ricorrenti non hanno ancora accettato l’eredità del condannato, avendo tempo per farlo sino al 19 ottobre 2024, ossia entro 10 anni dalla morte del loro congiunto, intervenuta il 19 ottobre 2014, per cui non può ritenersi valida l’ingiunzione a demolire fondata solo sul decreto penale di condanna n. 485/2000, che è stata notificata solo alla moglie del de cuius, Raffaella Contessa, ma è stata eseguita anche nei confronti di soggetti privi dell’animus possidendi e del corpus possessionis dei beni da demolire.
          Con il quarto motivo, infine, oggetto di doglianza è la violazione degli art. 24 e111 Cost. e 6 della C.E.D.U., osservandosi che nel caso di specie non è stato operato alcun equo contemperamento tra principio di legalità ed esigenza di assicurare protezione ai diritti fondamentali, posto che i titoli esecutivi fanno riferimento a opere per la regolarizzazione delle quali il condannato ha avanzato, rispettando i requisiti di legge, domanda di oblazione oltre 19 anni fa, il 30 gennaio 2004, pagandone le relative oblazioni e provvedendo nel frattempo a corrispondere i vari tributi legati agli immobili, senza sapere nulla dell’esito della domanda sino al 2014, anno in cui Matteo Giagnorio è deceduto. 
Stante il lungo lasso di tempo trascorso tra la richiesta di condono, senza che sia stato mani notificato alcun preavviso di diniego, i ricorrenti mai avrebbero immaginato di essere raggiunti da un decreto di esecuzione dell’ordine di demolizione per quei beni che consideravano essere ormai in regola, essendovi stata una palese violazione del principio di ragionevole durata del processo, che concerne, secondo la giurisprudenza CEDU, anche l’esecuzione della sentenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

     I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.
     1. Iniziando dal primo motivo, deve osservarsi che non appaiono ravvisabili le lacune motivazionali dedotte nel ricorso, posto che, sia pure in maniera sintetica, il giudice dell’esecuzione non ha mancato di confrontarsi con le deduzioni difensive, sia rispetto alla pendenza del contenzioso dinanzi al Tar Puglia in ordine all’impugnativa del rigetto dell’istanza di condono da parte del Comune di Lesina, sia in relazione all’eccepito difetto di legittimazione passiva dei ricorrenti.
In ordine al primo aspetto, è stato evidenziato, in conformità con il costante orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 35201 del 03/05/2016, Rv. 268032), che l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con sentenza irrevocabile, non può essere revocato o sospeso sulla base della mera pendenza di un ricorso in sede giurisdizionale avverso il rigetto della domanda di condono edilizio, mentre, con riferimento alla seconda questione, è stato applicato in modo pertinente il principio elaborato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193), secondo cui l’ordine di demolizione dell’opera abusiva, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei confronti dell’erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, essendosi in proposito rilevato che i ricorrenti, eredi legittimi di Matteo Giagnorio (allo stato non rinuncianti), avevano la disponibilità delle opere da demolire, come rivelato dalle azioni da essi intraprese.
Se è vero poi che il giudice dell’esecuzione ha omesso di pronunciarsi sulla eccezione riguardante l’omessa notifica agli eredi dell’ingiunzione a demolire, è anche vero che tale eccezione era destinata a essere disattesa, in quanto nella stessa richiesta del 14 marzo 2022 con cui è stato promosso l’incidente di esecuzione de quo, si dà atto che il 23 febbraio 2022 è stato notificato agli eredi di Matteo Giagnorio il decreto di esecuzione dell’ordine di demolizione riferito ai titolo esecutivi emessi nei confronti del de cuius, per cui il procedimento demolitorio è stato correttamente instaurato nei confronti dei ricorrenti.
Di qui la manifesta infondatezza della doglianza difensiva.
       2. Analoga conclusione si impone anche per il secondo motivo.
Ed invero la difesa, nel lamentare che il giudice dell’esecuzione non ha eseguito una perizia volta a verificare l’insistenza o meno degli immobili ritenuti abusivi su un’area demaniale, non considera che, come si desume dai titoli esecutivi richiamati nell’ordinanza impugnata, gli abusi edilizi sono stati realizzati in parte su area di proprietà di terzi e in parte su area demaniale, per cui, a fronte di un accertamento giurisdizionale definitivo, ogni ulteriore approfondimento sul punto non era indispensabile, non potendosi per altro verso sottacere che nel giudizio camerale è stata comunque svolta un’attività istruttoria, consistita nell’audizione del dirigente tecnico del Comune di Lesina e nell’acquisizione di documentazione.
       3. Passando al terzo motivo, riguardante l’asserita violazione degli art. 38, comma 4, della legge n. 47 del 1985, 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 3-7 della legge n. 241 del 1990, occorre ribadire che la decisione del giudice dell’esecuzione di non sospendere l’ordine di demolizione non può essere ritenuta illegittima, ove si consideri che, rispetto alle opere abusive, non hanno avuto esito positivo i procedimenti di sanatoria attivati dal condannato, posto che il Comune di Lesina, il 12 aprile 2022, rigettava l’istanza di condono avanzata il 30 gennaio 2004 ai sensi del decreto legge n. 269 del 2003, avendo il Tar Puglia, con ordinanza del 7 settembre 2022, respinto tale impugnazione cautelare.
Analogo esito si è verificato rispetto alla domanda di sanatoria presentata il 20 gennaio 1997 ex lege n. 47 del 1985, essendo stato rilevato che le opere abusive erano state realizzate in zona F5 del P.R.G., ovvero in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, dove non è consentito alcun tipo di intervento edilizio.
Stante l’esito delle decisioni rese in sede amministrative e giurisdizionale, deve quindi escludersi la configurabilità delle dedotte violazioni di legge, che invero presuppongono la legittimità e il buon esito delle procedure di sanatoria.
Va in ogni caso ribadito il principio affermato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 35201 del 03/05/2016, Rv. 268032 e Sez. 3, n. 42978 del 17/10/2007, Rv. 238145), secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza passata in giudicato può essere sospeso solo se sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo sia adottato dall’Autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con l’ordine di demolizione, evenienza questa non prospettabile nel caso di specie, alla luce di quanto esposto dal G.I.P.
     4. Venendo infine al quarto motivo, se ne deve parimenti rimarcare la manifesta infondatezza, non essendovi spazio per ritenere integrata, nella vicenda in esame, l’inosservanza degli art. 24 Cost. e 6 della C.E.D.U., dovendosi considerare, da un lato, che le lungaggini nella definizione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali aventi ad oggetto la verifica delle natura abusiva delle opere non valgono a incidere sulla legittimità degli ordini di demolizione, fondati su sentenze e decreti penali di condanna irrevocabili, e, dall’altro, che il ritardo nell’esecuzione delle demolizioni non legittima l’affidamento del privato circa l’esistenza di una sanatoria silente ex post delle opere risultate abusive, anche rispetto a coloro che sono subentrati nella posizione del condannato. 
A ciò dovendosi solo aggiungere che, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540 e Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Rv. 264736), l’ordine di demolizione, essendo privo di finalità punitive, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981, che riguarda soltanto le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
      5. In conclusione, stante la manifesta infondatezza delle doglianze proposte, i ricorsi di Raffaela Contessa, Lucia Giagnorio, Giuseppe Giagnorio e Vincenza Giagnorio devono essere dichiarati quindi inammissibili, con onere per ciascun ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. 
Tenuto conto, infine, della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. 
Così deciso il 27/10/2023