Cass. Sez. III n.43236 del 24 ottobre 2023 (UP 11 ott 2023)
Pres. Ramacci Est. Noviello Ric.Gambino
Urbanistica.Estensione ordine di demolizione ad aggiunte o modifiche del manufatto abusivo

L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione.

RITENUTO IN FATTO


    1. Con sentenza del 14 ottobre 2022, la corte di appello di Palermo riformava parzialmente la sentenza del tribunale di Palermo con cui, tra gli altri, i due odierni ricorrenti erano stati condannati in ordine al reato di cui all’art. 44 comma 1 del DPR 380/01 lett. b), escludendo limitatamente alla La Menza la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive realizzate, e confermava nel resto la sentenza.


    2. Avverso la predetta ordinanza Gambino Gaetano e La Menza Epifania  hanno proposto, tramite il proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi di impugnazione.

    3. Con il primo motivo deducono il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 44 del d.p.r. 380 del 2001, ed in relazione all’articolo 29 dello stesso DPR. Con riguardo alla La Menza, si afferma che gli argomenti utilizzati per affermarne la responsabilità non sarebbero idonei in tal senso. In particolare la corte di appello avrebbe valorizzato elementi che non possono suffragare la affermata sussistenza dell’ elemento obiettivo della condotta illecita, che quindi non sarebbe stato scrutinato anche con riguardo a quanto in proposito dedotto nel primo motivo di appello. La corte di appello si sarebbe limitata soltanto ad argomentare in tema di riconoscimento del profilo subiettivo della condotta illecita. La corte inoltre non diversificando le distinte posizioni degli imputati, avrebbe parificato i due ricorrenti anche sul piano del trattamento sanzionatorio nonostante specifica censura sul punto formulata nel primo motivo di appello. Sulla scia di quanto dedotto in sede di gravame, si sostiene che è irrilevante ai fini della attribuzione della condotta illecita contestata la qualità in sé di comproprietario, come desumibile da diversi argomenti specificati in ricorso a partire dal dato per cui il reato edilizio non è realizzabile, secondo la normativa, da chiunque, ma solo da chi rivesta specifiche posizioni, tra cui non rientra il comproprietario. Cosicchè al di fuori della realizzazione di una condotta attiva quale il commissionare, l’eseguire o il dirigere lavori abusivi, la fattispecie penale sarebbe integrata solo da inosservanza di obblighi di garanzia, come tali riferibili esclusivamente a soggetti determinati. Di cui all’art. 29 del DPR 380/01. In altri termini, in assenza di una dimostrata partecipazione attiva, solo in presenza di un dovere di garanzia potrebbe ravvisarsi a date condizioni una responsabilità in rapporto al reato edilizio. Ma essa non sarebbe rinvenibile in capo al comproprietario. Si aggiunge che il preteso carattere abusivo del piano sottostante a quello in contestazione, e. dove sarebbero stati conviventi all’epoca dei fatti i due ricorrenti, non sarebbe stato oggetto di verifica in tal senso né il capo di imputazione sarebbe stato esteso a tale piano sottostante.

    4. Con il secondo motivo deducono il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità penale dell’imputata La Menza. Si rappresenta il travisamento degli elementi di prova, atteso che non vi sarebbero stati dati probatori tali da giustificare la ritenuta partecipazione della ricorrente alla esecuzione o alla committenza dei lavori. E neppure vi sarebbero elementi giustificativi di una partecipazione morale. Si aggiunge che gli elementi dedotti a base del giudizio che qui si contesta sarebbero solo all’apparenza elementi plurimi, costituendo piuttosto diversi aspetti della stessa circostanza, quali quella del rapporto di coniugio. Inoltre, gli elementi valorizzati sarebbero altresì dati di mero carattere presuntivo. Si aggiunge e ribadisce che sarebbe anche mancata ogni verifica della pretesa abusività del piano sottostante a quello in contestazione, quale circostanza pure inserita nel giudizio di rilevazione della compartecipazione della La Menza. Rimarrebbe dunque insuperata la inconsapevolezza della La Menza circa la condizione formale relativa ai lavori edilizi commissionati dal marito coimputato, Gambino.

    5. Il terzo motivo relativo alla posizione di Gambino Gaetano, deduce il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 44 del d.p.r. 380 del 2001, l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato e la violazione dell’articolo 54 del codice penale; inoltre deduce il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dello stato di necessità. Si rappresenta che la corte d’appello non avrebbe valorizzato le condizioni di assoluta necessità esistenti, come illustrate nel terzo motivo di gravame con riferimento al predetto imputato. Sarebbe fuorviante e illogica l’affermazione della corte d’appello che, esaminando il tema dello stato di necessità, ha sostenuto la necessità comunque di dotarsi delle necessarie autorizzazioni, atteso che se queste vi fossero state non vi sarebbe stata necessità di trattare di tale scriminante. Scriminante sussistente invece in presenza di una situazione di grave disagio e difficoltà abitativa, per l’affollamento dei locali in cui vivevano i due ricorrenti prima che il Gambino si determinasse alla realizzazione delle opere abusive contestate. In questo caso il Gambino avrebbe agito per tutelare la propria libertà fisica e morale da un pericolo grave.

    6. Con il quarto motivo relativo alla posizione di entrambi gli imputati, deducono la violazione dell’articolo 44 citato in relazione all’articolo 133 del codice penale e all’articolo 62 bis del codice penale, con riguardo alla mancata applicazione delle attenuanti generiche; nonchè deducono vizi di motivazione per la mancata applicazione del minimo della pena ovvero di un trattamento più favorevole per la coniuge del Gambino e per la mancata applicazione delle attenuanti generiche per entrambi gli imputati. La Corte non avrebbe tenuto conto della lieve entità dell’offesa e delle situazioni precedentemente citate nei su indicati motivi di ricorso. La corte avrebbe dovuto applicare il minimo edittale e le attenuanti generiche, le quali sarebbero state negate in ragione del carattere abusivo anche del piano terra, che invece come già osservato non sarebbe emerso. Inoltre, data la diversa posizione della coniuge dell’imputato Gambino la prima avrebbe meritato un diverso trattamento sanzionatorio rispetto a quest’ultimo. Tali considerazioni sarebbero rafforzate anche alla luce degli ulteriori indici di cui all’articolo 133 codice penale. Le attenuanti generiche avrebbero dovuto essere applicate anche in ragione della destinazione abitativa dell’immobile, del ridotto carico urbanistico, del mancato coinvolgimento di aree comunali o demaniali, del motivo dell’azione, quale il dare un tetto al figlio, e della possibilità di ottenere una sanatoria

    7. Con il quinto motivo relativo alla posizione del Gambino deducono il vizio di violazione degli articoli 163, 164,165 codice penale con riguardo alla subordinazione della sospensione condizionale alla demolizione del manufatto edilizio abusivo; deducono altresì il vizio di motivazione in ordine alla subordinazione del predetto beneficio alla demolizione dell’opera abusiva. Si sottolinea l’illegittimità della automatica subordinazione della sospensione condizionale, la quale invece può essere disposta solo in presenza di condizioni e motivazioni che nella fattispecie non sussisterebbero. Mancherebbe peraltro ogni valutazione prognostica giustificativa della subordinazione stessa ed anzi già dalla sentenza di primo grado la valutazione prognostica sarebbe emersa in termini favorevoli all’imputato. Piuttosto, mancherebbe una motivazione a giustificare la valutazione della corte territoriale opposta a quella resa sul punto dal giudice di primo grado, le cui conclusioni non sarebbero state considerate neppure per essere smentite dalla corte d’appello. La statuizione contestata sarebbe illegittima anche perché in caso di assoluzione della sola La Menza la demolizione non potrebbe operare su un’opera appartenente anche a costei, che risulterebbe soggetto estraneo alla contravvenzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. I primi due motivi, inerendo al tema comune della responsabilità della La Menza devono essere valutati congiuntamente. Essi sono inammissibili. La Corte ha valorizzato plurimi indici tutti coerentemente convergenti nel senso del riconoscimento, in capo alla La Menza, di una piena consapevolezza dell’abusività dell’opera e di una altrettanto integrale compartecipazione, quantomeno morale, nella sua realizzazione. Tale impostazione argomentativa è conforme ad un consolidato orientamento giurisprudenziale più volte ribadito, per cui la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40, secondo comma, cod. pen., ma dev'essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all'interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato (Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013 Ud.  (dep. 29/10/2013 ) Rv. 257625 – 01). E’ stato così precisato che in materia di reati edilizi, la responsabilità del comproprietario, qualora non sia committente o esecutore dei lavori, deve essere ricavata da indizi precisi e concordanti, quali l'accertamento della concreta situazione in cui è stata svolta l'edificazione abusiva, i rapporti di parentela con l'esecutore dell'opera, ovvero il committente o il proprietario, tanto che la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito i quali avevano fondato la responsabilità del comproprietario, coniuge del committente, non solo sulla pur rilevante considerazione che la comunione di vita rende solitamente partecipe il coniuge delle deliberazioni che assumono rilevanza familiare e sulla mancanza di qualsiasi opposizione manifestata dal coniuge in merito alle opere abusive, ma anche su ulteriori plurimi elementi positivi (Sez. 3, n. 24319 del 04/05/2004 Ud.  (dep. 28/05/2004 ) Rv. 229428 – 01); tra i vari indizi valorizzabili, la giurisprudenza di legittimità ha anche indicato la piena disponibilità della superficie edificata, l'interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l'esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell'immobile secondo le norme civilistiche sull'accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale alla realizzazione del fabbricato (Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012 Ud.  (dep. 03/07/2012 ) Rv. 253065 – 01) e ancora l'adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni, la presentazione di istanze concernenti l'immobile o l'esecuzione di qualsiasi altra attività indicativa di una partecipazione alla costruzione illecita. Si è altresì rilevato come non sia di poco rilievo lo statuto della comproprietà rispetto alla attività edilizia illecita, atteso che è pur vero che il comproprietario ha il potere di porre il veto all'esecuzione di opere non assentite sull'area in comunione. E se questi è il coniuge del comproprietario autore dell'opera non può non tenersi conto della stretta comunanza di interessi, che rendono il coniuge naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare, a meno che l'interessato non provi in contrario che tali presupposti, nel caso concreto, per una qualsiasi ragione, non ricorrono. (Sez. 3, n. 7314 del 10/02/2000 Rv. 216971 – 01).
In altri termini, in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica del suolo ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, che i giudici di appello hanno avuto cura di individuare con coerenza e precisione in circostanze fattuali e significative, tra cui la convivenza e quindi correlata comunanza di vita della La Menza con il coniuge committente, la presenza della La Menza sul luogo dei lavori, la presenza di entrambi i coniugi nell’immobile definitivo su cui si stava realizzando la sopraelevazione abusiva in contestazione: dati questi oggettivi e privi di portata presuntiva, quanto, piuttosto, dimostrativi di una chiara condivisione della scelta illecita del coniuge anche in assenza di ogni dato contrario a tale inequivocabile ricostruzione. Piuttosto che circostanze di portata presuntiva, si tratta di elementi che in realtà suffragano un ragionamento lineare e coerente fondato anche su massime consolidate, come tale valido, posto che la prova della responsabilità – in tal caso la compartecipazione morale – può essere sostenuta anche mediante la cd. prova logica.
Di contro le obiezioni difensive muovono su un piano meramente rivalutativo dei medesimi dati valorizzati dai giudici, come tale inammissibile.  

    2. Il terzo motivo è inammissibile. Innanzitutto perché gli stessi giudici evidenziano la mancata prova della sussistenza di un pericolo grave di danno alla persona – elemento essenziale dello stato di necessità ex art. 54  cod. pen. – senza che sul punto emerga alcuna puntale contestazione (a fronte di una mera e  generica prospettazione di difficoltà abitative con grave disagio abitativo), sebbene sussista un onere di specificità a carico del ricorrente, per cui  i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili «non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato» (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568) e le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l'atto di impugnazione risiedono nel fatto che il ricorrente non può trascurare le ragioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425). Inoltre va ribadito, come pure fatto dai giudici di merito, che in materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo. (In motivazione la Corte ha precisato che la realizzazione della costruzione abusiva non può essere giustificata dalla mera necessità di evitare un danno alle cose). (Sez. 3, n. 2280 del 24/11/2017  (dep. 19/01/2018 ) Rv. 271769 – 01). Neppure trova fondamento la critica alla argomentazione logica circa la necessità di dotarsi di titoli abilitativi, atteso che i giudici facendo seguito ad una citata massima giurisprudenziale per cui non è configurabile lo stato di necessità in materia edilizia e più in generale ambientale, non hanno voluto fare altro che ribadire l’impraticabilità, nel caso concreto, della invocata scriminante e quindi la persistente necessità di titoli abilitativi.

    3. Il quarto motivo è manifestamente infondato. Quanto alle attenuanti generiche non appare assolutamente travisato il rilievo per cui anche il piano sottostante a quello in contestazione era abusivo, atteso che tale dato emerge, come rilevato già in primo grado, dalla deposizione del teste Sacco, di cui i ricorrenti hanno allegato la deposizione, laddove non solo ha escluso la esistenza di istanze di concessione  a nome dei due ricorrenti, ma anche ha aggiunto, su specifica domanda, che si trattava di zona destinata a verde agricolo e quindi non edificabile. E che si tratti di circostanza rilevante ai fini in questione, è dato anche dal fatto che, come noto, in caso di abusi realizzati in progressione su piani sovrapposti, la demolizione deve necessariamente coinvolgere tutte le opere complessivamente e unitariamente intese. In tale ultimo senso questa Suprema Corte ha infatti precisato che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che correttamente la Corte territoriale, in funzione di giudice dell'esecuzione, avesse respinto la richiesta, formulata dal proprietario del piano primo di un edificio, di revoca o modifica dell'ordine di demolizione del piano terreno, disposto con sentenza nei confronti del responsabile dell'abuso). (Sez. 3, Sentenza n. 6049 del 27/09/2016 (dep. 09/02/2017 ) Rv. 268831 – 01). Tanto precisato, va ribadito che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (in termini, ex multis, Sez. 2 - , n. 23903 del 15/07/2020 Rv. 279549 – 02 Marigliano). Quanto alla pena, i giudici hanno confermato il trattamento sanzionatorio di primo grado dopo avere illustrato le complessive emergenze della vicenda, così dichiarando la congrutà dello stesso, che corrisponde a mesi sei di arresto ed euro 20.000 di ammenda, a fronte di una pena edittale corrispondente all'arresto fino a due anni e all'ammenda da 5164 a 51645 euro, da raddoppiarsi, posto che il D.L. 30 settembre 2003, n.  269,  convertito  con  modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, ha disposto (con l'art. 32,  comma 47) che "Le sanzioni pecuniarie di cui all'articolo  44  del  decreto del  Presidente  della  Repubblica  6  giugno  2001,  n.  380,   sono incrementate del cento per cento". Si tratta dunque di pena vicina al minimo e inferiore al medio edittale, per cui trova applicazione il principio per cui la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009 Rv. 245596 - 01).

    4. Inammissibile è l’ultimo motivo. I giudici hanno confermato la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione nei confronti del Gambino in ragione del fatto per cui lo stesso ha già usufruito in passato di tale beneficio, senza che tale profilo risulti smentito. Per cui hanno fatto applicazione della regola per cui la concessione della sospensione condizionale della pena, in linea generale, a norma dell'art. 165 cod. pen., può, ma non deve, essere subordinata all'adempimento di obblighi, salvo che non sia concessa a persona che abbia già usufruito del beneficio (cfr. in motivazione Sez. 3 - , n. 38476 del 31/05/2019 Rv. 276889 – 01).

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso il 11/10/2023