Cass. Sez. III n. 18790 del 8 maggio 2008 (Cc. 5 mar. 2008)
Pres. Altieri Est. Sarno Ric. Chiodi
Rifiuti. Attività organizzate per il traffico illecito e sequestro azienda

Sulla ammissibilità dell’affidamento ad un amministratore giudiziario dell’azienda sequestrata per violazione dell’articolo 260 D.Lv. 1526
Chiodi Giambattista impugna per cassazione il provvedimento con il quale il GIP del tribunale di Napoli confermava la nomina degli amministratori giudiziari dell’azienda della società FAECO sottoposta a sequestro preventivo per i reati di cui agli artt. 483 cod. pen. e 260 D.L.vo 152/06.
Eccepisce il ricorrente che il provvedimento del GIP rappresenta un atto abnorme lamentando che l’amministrazione dei beni sequestrati sia stata affidata a un custode in base a un’inammissibile applicazione analogica dell’art. 12 sexies della legge n. 356 del 1992, che prevede solo per particolari reati, diversi da quelli a lui contestati, la possibilità di affidare a un custode l’amministrazione dei beni sequestrati.

Motivi della decisione.
Il ricorso è infondato.
L’iniziativa del GIP appare invero adottata in conformità alle disposizioni vigenti.
Al riguardo questa Corte ha già affermato in alcune decisioni che la possibilità di affidare al custode l’amministrazione dei beni sequestrati si desume inequivocabilmente dall’art. 259 comma 1 c.p.p., laddove prevede che il giudice debba determinare le modalità della custodia e che l’art. 259 c.p.p., benché dettato in tema di sequestro probatorio, è indiscutibilmente applicabile anche al sequestro preventivo, in ragione del rinvio contenuto nell’art. 104 disp. att. (Cass., sez. un., 18 maggio 1994 Soc. Comit leasing). Sicché, quando si tratti di sequestro preventivo, il giudice deve determinare le modalità di custodia anche in funzione della tutela delle finalità cautelari proprie della misura; ed è evidente che quando oggetto di sequestro sia un azienda, può risultare opportuno affidarne l’amministrazione al custode.
Si è anche precisato nell’occasione che l’art. 12 sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1992, n. 356, non prevede una modalità eccezionale di custodia dei beni sequestrati, ma si limita solo a imporre che, nel caso di sequestro di beni pertinenti a delitti di mafia, ne vada sempre affidata l’amministrazione a un custode, in modo da sottrarla agli ambienti criminali dal quale i beni provengono.
In altre parole ciò che di regola è solo possibile in ragione di una scelta discrezionale del giudice, diviene così obbligatorio per i delitti di criminalità organizzata (Sez. 2, n. 46850 del 2004 Rv. 230444; Sez. 5 n.. 34645 del 2001 Rv. 220207).
A tale orientamento il Collegio ritiene di dovere aderire anche in considerazione del fatto che l’azienda si caratterizza non già come un semplice insieme di beni ma invece come una entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi, che lega la sua esistenza alla continuazione dell’attività imprenditoriale.
E la sostituzione degli amministratori per il tempo in cui opera la misura cautelare tende evidentemente a garantire proprio la corretta prosecuzione dell’attività aziendale.
Non ritiene quindi il Collegio di potere aderire al diverso orientamento di legittimità secondo il quale avendo il custode esclusivamente l’obbligo di conservare le cose sequestrate e di presentarle ad ogni richiesta dell’autorità giudiziaria non può essergli imposto dall’autorità giudiziaria l’onere di provvedere ad ulteriori attività di gestione patrimoniale, come, ad esempio, al reimpiego delle somme di denaro derivanti dal rimborso di titoli, oggetto del sequestro, che vengano a scadenza nelle more del vincolo giudiziario (Sez. 6, n. 35103 del 2003 Rv. 226899); orientamento che peraltro, alla luce dei principi costantemente affermati da questa Corte e ribaditi anche di recente dalle S.U. (n. 5307 del 2007 Rv. 238240), in nessun caso comporta l’abnormità del provvedimento di nomina degli amministratori.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.