Ancora una volta la Corte costituzionale stronca i tentativi regionali di privatizzazione dei demani civici sardi.

di Stefano DELIPERI


La Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 103 depositata l’11 maggio 2017, ha scritto davvero una pagina fondamentale per la difesa dell’ambiente e delle proprietà collettive del Bel Paese.
Ha, infatti, fermato ancora una volta i tentativi di sdemanializzazione di terre civiche avanzati da una Regione – la Regione autonoma della Sardegna – dove rappresentano una parte importante dell’Isola.
Con la recente pronuncia, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 e per gli anni 2016-2018 (legge di stabilità 2016)»”, fra cui le norme in materia di sclassificazione – cioè sdemanializzazione – di terreni dai rispettivi demani civici.
La Corte costituzionale ha impartito una severa lezione di diritto al Legislatore regionale sardo, non nuovo a censure di legittimità costituzionale in materia di usi civici.
Il quadro normativo vigente contempla norme nazionali (legge n. 1766/1927 e s.m.i., regio decreto n. 332/1928 e s.m.i., prima legge n. 431/1985 e oggi decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) che informano le competenze primarie regionali (statuto speciale per la Sardegna, art. 3, lettera n, della legge cost. n. 3/1948) e la loro attuazione normativa (legge regionale Sardegna n. 12/1994 e s.m.i.): “nella richiamata normativa il sintagma ‘usi civic’” è utilizzato in modo polisenso, onnicomprensivo dei fenomeni di titolarità e gestione di beni comuni da parte di una collettività organizzata e dei suoi componenti. Carattere comune di questi istituti giuridici (differenziati sul territorio nazionale: domini collettivi, regole, cussorge, ademprivi, etc.) è la gestione di alcuni beni in comune per finalità prevalentemente agro-silvo-pastorali, finalità che ebbero particolare rilevanza in passato nelle collettività rurali caratterizzate da un’ampia diffusione dell’economia di sussistenza”.
Ciò non significa che i diritti si uso civico siano rimasti cristallizzati e residuali, ma hanno acquisito possibilità di evoluzione nell’attuazione pratica e rispondono anche a nuove esigenze pubbliche: “nel contesto storico contemporaneo la rilevanza socio-economica delle antiche utilizzazioni si è notevolmente ridotta, ma le leggi più recenti (decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1985, n. 431, ed art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004) hanno stabilito che i caratteri morfologici, le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico ed il relativo regime giuridico sono meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni collettivi”.
In proposito, il Giudice delle Leggi ha affermato che, “pur nel mutato quadro normativo, la destinazione di beni civici può essere variata solo nel rispetto della vocazione dei beni e dell’interesse generale della collettività, all’esito di un procedimento tecnico-amministrativo, rispettoso dell’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928”, mentre le norme regionali impugnate “producono l’effetto di sottrarre al patrimonio collettivo vasti appezzamenti di territorio, individuati od individuabili secondo la diversa tecnica normativa impiegata”.
Si tratta di aree tutelate ex lege con il vincolo paesaggistico (art. 142, comma 1°, lettera h, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) in base a competenza primaria statale, per cui “le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio si impongono al rispetto del legislatore della Regione autonoma Sardegna, anche in considerazione della loro natura di norme di grande riforma economico-sociale e dei limiti posti dallo stesso statuto sardo alla potestà legislativa regionale (sentenze n. 210 del 2014 e n. 51 del 2006)”.   La sdemanializzazione così prevista punta “a ridurre, attraverso la piena sclassificazione, il patrimonio vincolato”.
La Corte ha, poi, delineato i ristretti ambiti operativi degli eventuali provvedimenti normativi regionali di sdemanializzazione: “Certamente la sclassificazione non può, salvo i casi suscettibili di alienazione e legittimazione previsti dalla legge n. 1766 del 1927, servire a sanare indiscriminatamente occupazioni abusive. Né si può fare riferimento alla pregressa cessazione dell’uso per giustificarla. Come è noto, regola generale è la imprescrittibilità del diritto di uso civico (artt. 2 e 9 della legge n. 1766 del 1927) ed è consolidato orientamento del giudice della nomofilachia quello della presunzione di preesistenza dell’uso (ex plurimis, Cass., sezioni unite, 24 febbraio 1982, n. 1150, Cass., sezione seconda, 6 maggio 1980, n. 2986, e Cass., sezione seconda, 20 ottobre 1976, n. 3660). Pertanto, il mancato esercizio dell’uso – magari causato ‘vi vel clam vel precario’ – non può certamente giustificare l’adozione di una sclassificazione indiscriminata ma, nei casi tassativamente previsti, può giustificare una conversione al regime di diritto privato necessariamente onerosa”.
Nei casi estremi in cui si può giungere alla sdemanializzazione essa deve, quindi, essere a titolo oneroso, per risarcire la collettività della perdita di parte del proprio patrimonio.
Inoltre, “le norme impugnate sono altresì lesive del principio di leale collaborazione perché sottraggono preventivamente una parte del patrimonio che dovrebbe essere sottoposto alla copianificazione tra Stato e Regione. Dopo la funzionalizzazione di tali beni alla cura del paesaggio e dell’ambiente, il carattere ‘sclassificante’ delle norme regionali – anziché assumere un profilo di marginale riduzione del patrimonio tutelato – viene a costituire un elemento pregiudizievole e condizionante gli indirizzi ed i contenuti della pianificazione”, soprattutto per il “carattere generalizzato di una tale procedura”.
In realtà, “i beni d’uso civico sono inalienabili, inusucapibili ed imprescrittibili e la loro sclassificazione, che è finalizzata a sottrarre in via definitiva alla collettività di riferimento il bene, è un evento eccezionale subordinato alle specifiche condizioni di legge, tra le quali mette conto ricordare che le zone oggetto di legittimazione o di alienazione non interrompano la continuità del patrimonio collettivo, pregiudicandone la fruibilità nel suo complesso”.
Le norme regionali dichiarate incostituzionali individuano, in sostanza, “fattispecie che potrebbero essere riconducibili ad ipotesi di condono di diversa natura e di differenziati presupposti”.
Come accennato, si tratta di una nuova censura di costituzionalità subita da un provvedimento legislativo regionale sardo in materia di usi civici.   
In precedenza, infatti, con la sentenza n. 210 del 18 luglio 2014, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge regionale Sardegna n. 19/2013 in materia di sdemanializzazione di terreni appartenenti al demanio civico1, in quanto aveva introdotto una delega ai Comuni “alla ricognizione generale degli usi civici esistenti sul proprio territorio”, nonostante anni di difficile lavoro e milioni di euro spesi dalla Regione autonoma della Sardegna per le operazioni che hanno portato all’Inventario generale delle terre civiche previsto dalla legge. Tale “ricognizione” sarebbe andata a costituire la base soprattutto per sdemanializzazioni, in particolare per “i terreni sottoposti ad uso civico (che, n.d.r.) abbiano perso la destinazione funzionale originaria di terreni pascolativi o boschivi ovvero non sia riscontrabile né documentabile la originaria sussistenza del vincolo demaniale civico”, cioè in tutti quei casi in cui vi siano state occupazioni abusive, abusi edilizi, destinazioni agricole ovvero i diritti di uso civico siano stati accertati per presunzione in quanto già terreni feudali (la gran parte dei demani civici).
Ancora una volta la Corte costituzionale ha fermato simili operazioni di sdemanializzazione, costituendo un importante baluardo per la difesa degli oltre 5 milioni di ettari di boschi, coste, pascoli, terreni agricoli costituenti le terre collettive in tutta Italia.
Dott. Stefano Deliperi








SENTENZA N. 103
ANNO 2017
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-          Paolo                           GROSSI                                            Presidente
-          Alessandro                 CRISCUOLO               Giudice
-          Giorgio                        LATTANZI                                               ”
-          Aldo                            CAROSI                                                    ”
-          Marta                           CARTABIA                                              ”
-          Mario Rosario             MORELLI                                                 ”
-          Giancarlo                    CORAGGIO                                              ”
-          Giuliano                      AMATO                                                    ”
-          Silvana                        SCIARRA                                                 ”
-          Daria                           de PRETIS                                                ”
-          Nicolò                         ZANON                                                     ”
-          Franco                         MODUGNO                                              ”
-          Augusto Antonio         BARBERA                                                ”
-          Giulio                          PROSPERETTI                                         ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 e per gli anni 2016-2018 (legge di stabilità 2016)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 13-16 giugno 2016, depositato in cancelleria il 21 giugno 2016 ed iscritto al n. 34 del registro ricorsi 2016.
Udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2017 il Giudice relatore Aldo Carosi;
udito l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 13-16 giugno 2016 (iscritto al n. 34 del Reg. ric. dell’anno 2016) il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 e per gli anni 2016 - 2018 (legge di stabilità 2016)» – pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma Sardegna del 13 aprile 2016, n. 18 – in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettere l) e s), e terzo comma – in relazione agli artt. 135, 142 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), ed all’art. 31, comma 26, della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2012)» – e 118 della Costituzione.
1.1.– Anzitutto, il ricorrente censura l’art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016, in quanto, disponendo l’applicazione dell’art. 159, commi 1, 3 e 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), agli enti strumentali della Regione, alle unioni di comuni, ai consorzi industriali provinciali ed ai consorzi di bonifica relativamente ai fondi messi a disposizione da parte dello Stato, della Regione e dell’Unione europea, estenderebbe la portata soggettiva ed oggettiva del regime di limitazione delle procedure di esecuzione e quindi di soddisfacimento patrimoniale delle ragioni dei creditori. In tal modo la norma eccederebbe dalla competenza regionale, incidendo in materie – «norme processuali» ed «ordinamento civile» – riservate al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., così come questa Corte avrebbe già avuto modo di affermare (si cita la sentenza n. 273 del 2012).
1.2.– In secondo luogo, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016. In particolare, il ricorrente sostiene che il comma 24 prevederebbe una riapertura dei termini per la richiesta di sclassificazione dei beni di uso civico; il comma 25 inserirebbe un’ulteriore ipotesi in cui consentirla ed i commi 26 e 27 provvederebbero direttamente alla sclassificazione di alcuni beni di uso civico, sottraendoli al relativo regime. Tali disposizioni contrasterebbero con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e con gli artt. 135, 142 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), con cui il legislatore statale avrebbe esercitato la propria competenza esclusiva in materia. In particolare, l’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004 – che disciplina il piano paesaggistico la cui elaborazione è affidata, dall’art. 135 del medesimo decreto, congiuntamente a Stato e Regione – prevede al comma 1, lettera c), che esso debba comprendere la «ricognizione delle aree di cui al comma 1 dell’articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione». Tra le aree interessate dal richiamato art. 142, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004 rientrano quelle «assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» (lettera h). Con le norme censurate la Regione autonoma Sardegna sarebbe intervenuta unilateralmente anziché attraverso la pianificazione condivisa, senza che al riguardo possa soccorrere la competenza legislativa regionale in materia – si tratterebbe di quella sugli usi civici riconosciuta dall’art. 3, primo comma, lettera n), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) – atteso che essa incontra il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica quali le evocate disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, così come già affermato da questa Corte (si cita la sentenza n. 210 del 2014). Di qui la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché dell’art. 118 Cost. per il mancato rispetto del principio di leale collaborazione, stante la «connessione indissolubile tra materie di diversa attribuzione».
1.3.– Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 8, comma 13, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016, in quanto la norma prevederebbe, per i piccoli Comuni sardi, l’esenzione dal regime sanzionatorio correlato al mancato rispetto del patto di stabilità interno per il 2015. La disposizione esorbiterebbe dalla competenza prevista dall’art. 3, lettera b), dello statuto reg. Sardegna in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» e si porrebbe in contrasto con l’art. 31, comma 26, della legge n. 183 del 2011, espressione di un principio riconducibile alla materia «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
2.– La Regione autonoma Sardegna non si è costituita in giudizio.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 e per gli anni 2016 - 2018 (legge si stabilità 2016)», in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettere l) e s), terzo comma – in relazione agli artt. 135, 142 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), ed all’art. 31, comma 26, della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2012)» – e 118 della Costituzione.
Anzitutto, il ricorrente censura l’art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 in quanto, disponendo l’applicazione dell’art. 159, commi 1, 3 e 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), agli enti strumentali della regione, alle unioni di comuni, ai consorzi industriali provinciali ed ai consorzi di bonifica relativamente ai fondi messi a disposizione da parte dello Stato, della regione e dell’Unione europea, estenderebbe la portata soggettiva ed oggettiva del regime di limitazione delle procedure di esecuzione e quindi di soddisfacimento patrimoniale delle ragioni dei creditori previsto dalla normativa statale, incidendo in materie – «norme processuali» ed «ordinamento civile» – riservate al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
In secondo luogo, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della citata legge regionale. In particolare, il ricorrente sostiene che il comma 24 prevederebbe una riapertura dei termini per la richiesta di sclassificazione dei beni di uso civico prevista dall’art. 18-bis della legge della Regione autonoma Sardegna 14 marzo 1994, n. 12 (Norme in materia di usi civici. Modifica della legge regionale 7 gennaio 1977, n. 1 concernente l’organizzazione amministrativa della Regione sarda); il comma 25 inserirebbe un’ulteriore ipotesi in cui consentirla ed i commi 26 e 27 provvederebbero direttamente alla sclassificazione di alcuni beni di uso civico, sottraendoli al relativo regime. Tali disposizioni contrasterebbero con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e con gli artt. 135, 142 e 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, che prevedono l’elaborazione congiunta tra Stato e regione del piano paesaggistico e dispongono che esso comprenda anche «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici». Con le norme censurate la Regione autonoma Sardegna sarebbe intervenuta unilateralmente anziché attraverso la pianificazione condivisa, senza che al riguardo possa soccorrere la competenza legislativa regionale in materia di usi civici, atteso che essa incontra il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, quali sarebbero le evocate disposizioni legislative statali. Di qui la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché dell’art. 118 Cost., per il mancato rispetto del principio di leale collaborazione.
I commi 26 e 27 dell’art. 4, individuando – attraverso i dati catastali – alcuni terreni di cui disporre la sclassificazione, sarebbero inficiati dal medesimo vizio dei commi precedenti ed inoltre, per effetto del loro carattere di norme provvedimentali, sottrarrebbero «risorse alla collettività che ne è proprietaria», interferendo contemporaneamente sulla tutela del paesaggio, «materia assegnata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato».
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 8, comma 13, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016, in quanto la norma prevederebbe, per i piccoli comuni sardi, l’esenzione dal regime sanzionatorio correlato al mancato rispetto del patto di stabilità interno per l’anno 2015. La disposizione esorbiterebbe dalla competenza statutaria in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» e si porrebbe in contrasto con l’art. 31, comma 26, della legge n. 183 del 2011, espressione di un principio riconducibile alla materia «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
2.– L’art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 viene denunciato per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e non per violazione di un parametro statutario.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «nel caso in cui venga impugnata in via principale la legge di un soggetto ad autonomia speciale, la compiuta definizione dell’oggetto del giudizio, onere di cui è gravato il ricorrente, non può prescindere dall’indicazione delle competenze legislative assegnate dallo statuto» (ex plurimis, sentenza n. 252 del 2016).
Tuttavia, questa Corte ha altresì chiarito che «il ricorrente ben può dedurre la violazione dell’art. 117 Cost. e postulare che la normativa regionale o provinciale impugnata eccede dalle competenze statutarie quando a queste ultime essa non sia in alcun modo riferibile (sentenza n. 16 del 2012)» (sentenza n. 151 del 2015).
Nella fattispecie, il contenuto della norma censurata – eminentemente privatistico e processuale, come meglio risulterà in prosieguo – nonché la natura del parametro evocato – «ordinamento civile» e «norme processuali» – escludono in maniera evidente di per sé l’utilità di uno scrutinio alla luce delle disposizioni statutarie (similmente, sentenza n. 391 del 2006).
2.1– Tanto premesso, nel merito la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 è fondata.
La disposizione, nel prevedere che siano applicate agli enti strumentali della regione, alle unioni dei comuni, ai consorzi industriali provinciali e ai consorzi di bonifica le disposizioni dei commi 1, 3 e 4 dell’art. 159 del d.lgs. n. 267 del 2000, e successive modifiche e integrazioni, amplia la fattispecie normativa richiamata con riguardo ad una serie di enti pubblici e di situazioni oggettive in essa non ricompresi.
In sostanza, la norma censurata opera un’estensione oggettiva e soggettiva della disciplina dettata dal legislatore statale, consentendo di escludere dall’esecuzione forzata i fondi specificatamente destinati alla realizzazione di opere pubbliche delegate dalla regione messi a disposizione da parte dello Stato, della regione stessa o dell’Unione europea ad una serie di enti la cui elencazione eccede quella alla quale si riferisce l’art. 159 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Introducendo una limitazione al soddisfacimento patrimoniale delle ragioni dei creditori dei suddetti enti ed assegnando alle situazioni soggettive di coloro che hanno avuto rapporti con essi un regime sostanziale e processuale peculiare rispetto a quello ordinario altrimenti applicabile, l’art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 incide, dunque, nelle materie «ordinamento civile» e «norme processuali» di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sentenza n. 273 del 2012), onde la fondatezza della questione proposta.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato altresì l’art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della medesima legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 118 Cost., sotto il profilo della leale collaborazione.
Secondo il ricorrente, il comma 24, disponendo una riapertura dei termini per la richiesta di sclassificazione dei beni di uso civico prevista dall’art. 18-bis della legge reg. Sardegna n. 12 del 1994, ed il comma 25, inserendo un’ulteriore ipotesi di sclassificazione, contrasterebbero con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e con gli artt. 135, 142 e 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, i quali sono espressione della competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale. Tale competenza, ricomprendendo la pianificazione e la tutela delle aree «assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» (art. 142, comma 1, lettera h, del d.lgs. n. 42 del 2004), sarebbe invasa dalla Regione autonoma Sardegna e violata in relazione ai «principi fondamentali che sorreggono la materia della tutela del paesaggio». Ciò anche in relazione al profilo della pianificazione paesaggistica (viene in tal senso richiamato l’art. 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale sarebbe norma di grande riforma economico-sociale).
I commi 26 e 27 dell’art. 4, individuando – attraverso i dati catastali – alcuni terreni di cui disporre la sclassificazione, sarebbero inficiati dal medesimo vizio dei commi precedenti ed inoltre, per effetto del loro carattere di norme provvedimentali, sottrarrebbero «risorse alla collettività che ne è proprietaria», interferendo contemporaneamente sulla tutela del paesaggio, «materia assegnata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato».
Le norme impugnate sarebbero altresì in contrasto con il principio di leale collaborazione, anche alla luce della sentenza n. 210 del 2014, perché il legislatore regionale avrebbe proceduto con modalità unilaterali preclusive della considerazione degli interessi sottesi alla competenza legislativa di cui lo Stato è titolare.
3.1.– Per la disamina della questione di legittimità costituzionale oggetto del giudizio è utile una sintetica ricostruzione dell’evoluzione storico-normativa che caratterizza la materia degli “usi civici e delle università agrarie”. Come si chiarirà in prosieguo, queste espressioni individuano, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, fattispecie diverse di beni civici.
Le fonti legislative di riferimento per la definizione del presente giudizio sono essenzialmente: la legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R.D. 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R.D. 22 maggio 1924, n. 751, e del R.D. 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R.D.L. 22 maggio 1924, n. 751), ed il regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), inerenti al regime giuridico dei beni civici; il d.lgs. n. 42 del 2004, afferente alla tutela paesaggistica ed ambientale; la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), la quale attribuisce alla Regione stessa, «in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto […] degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica […] potestà legislativa [in materia di] usi civici» (art. 3, lettera n).
Nella richiamata normativa il sintagma “usi civici” è utilizzato in modo polisenso, onnicomprensivo dei fenomeni di titolarità e gestione di beni comuni da parte di una collettività organizzata e dei suoi componenti. Carattere comune di questi istituti giuridici (differenziati sul territorio nazionale: domini collettivi, regole, cussorge, ademprivi, etc.) è la gestione di alcuni beni in comune per finalità prevalentemente agro-silvo-pastorali, finalità che ebbero particolare rilevanza in passato nelle collettività rurali caratterizzate da un’ampia diffusione dell’economia di sussistenza.
Nel contesto storico contemporaneo la rilevanza socio-economica delle antiche utilizzazioni si è notevolmente ridotta, ma le leggi più recenti (decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1985, n. 431, ed art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004) hanno stabilito che i caratteri morfologici, le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico ed il relativo regime giuridico sono meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni collettivi.
Il riconoscimento normativo della valenza ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più penetranti e, dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali – devono essere compatibili con l’interesse generale della comunità che ne è titolare. Detto principio si rinviene nell’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928, il quale stabilisce «[…] che a tutte o parte delle terre sia data una diversa destinazione, quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti […]. In tal caso il decreto di autorizzazione conterrà la clausola del ritorno delle terre, in quanto possibile, all’antica destinazione quando venisse a cessare lo scopo per il quale l’autorizzazione era stata accordata. Qualora non sia possibile ridare a queste terre l’antica destinazione, il Ministro per l’economia nazionale potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime».
La linea di congiunzione tra le norme risalenti e quelle più recenti, che hanno incluso gli usi civici nella materia paesaggistica ed ambientale, va rintracciata proprio nella pianificazione: ai piani economici di sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 vengono oggi ad aggiungersi ed a sovrapporsi i piani paesaggistici di cui all’art. 143 del d.lgs. n 42 del 2004. La pianificazione prevista da questi ultimi – a differenza del passato – riguarda l’intero patrimonio dei beni civici e non più solo i terreni identificati dall’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 con la categoria a («terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente»).
Caratteristico dei beni d’uso civico è stato, ed è tuttora, il particolare regime di indisponibilità (art. 12, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927), che la giurisprudenza ha sempre considerato con il massimo rigore ermeneutico (ex plurimis,Cass., sezione seconda, 24 luglio 1963, n. 2062).
Mentre la legge n. 1766 del 1927 differenziava la destinazione delle terre d’uso civico prevedendo che le terre di categoria a fossero adibite a boschi e pascoli (artt. 12, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927) e che quelle ascritte dall’art. 11 della medesima legge alla categoria b («terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria») fossero oggetto di ripartizione e cessione in enfiteusi (artt. 13 e seguenti della legge n. 1766 del 1927) a membri della comunità per l’esercizio dell’attività agricola, i profondi mutamenti economici e sociali intervenuti nel secondo dopoguerra hanno modificato l’orientamento del legislatore nel senso di una conservazione unitaria dei patrimoni nel loro complesso. In sostanza, sono venuti in evidenza diversi profili di interesse generale, in particolare quelli paesaggistici ed ambientali che hanno coinvolto l’intero patrimonio d’uso civico.
Questa evoluzione normativa si è manifestata prima con l’art. 1 del d.l. n. 312 del 1985, il quale ha sottoposto a vincolo paesaggistico, tra l’altro, «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» (art. 82, quinto comma, lettera h, del d.lgs. n. 616 del 1977) e, poi, con l’art. 142, comma 1, lettera h) del d.lgs. n. 42 del 2004 che ha inserito detti beni nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
Questa Corte ha qualificato tali disposizioni come norme di grande riforma economico-sociale (ex plurimis, sentenze n. 210 del 2014, n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009).
3.2.– La richiamata evoluzione normativa consente di focalizzare l’attenzione sulla disciplina delle trasformazioni d’uso dei beni civici, con particolare riguardo agli istituti traslativi attraverso i quali tali trasformazioni divengono possibili.
Da un lato, l’alienazione e la legittimazione servono alla conversione del demanio in allodio, comportante la sottoposizione del bene trasformato alla disciplina civilistica della proprietà privata; dall’altro, il mutamento di destinazione ha lo scopo di mantenere, pur nel cambiamento d’uso, un impiego utile alla collettività che ne rimane intestataria. Già prima dell’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio questa Corte aveva affermato che nell’ordinamento costituzionale vigente prevale – nel caso dei beni civici – l’interesse «di conservazione dell’ambiente naturale in vista di una [loro] utilizzazione, come beni ecologici, tutelato dall’articolo 9, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 391 del 1989).
Pur nel mutato quadro normativo, la destinazione di beni civici può essere variata solo nel rispetto della vocazione dei beni e dell’interesse generale della collettività, all’esito di un procedimento tecnico-amministrativo, rispettoso dell’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928.
In tale prospettiva, il mutamento di destinazione non contrasta con il regime di indisponibilità del bene civico: infatti i decreti di autorizzazione al mutamento prevedono, salvo casi eccezionali, la clausola risolutiva ricavata dal citato art. 41, secondo cui, ove la nuova destinazione venga a cessare, sarà automaticamente ripristinata la precedente oppure conferita una nuova, anch’essa compatibile con la vocazione dei beni, attraverso la valutazione delle autorità competenti. Queste ultime – per quanto precedentemente argomentato – devono essere oggi individuate nel Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e nella regione (in tal senso, sentenza n. 210 del 2014).
Se il mutamento di destinazione è compatibile – sotto gli enunciati profili – col regime di indisponibilità dei beni civici, altrettanto non può dirsi degli istituti dell’alienazione e della legittimazione, i quali – rispettivamente per i beni di categoria a e di categoria b (art. 11 della legge n. 1766 del 1927) – prevedono la trasformazione del demanio in allodio con conseguente trasferimento del bene in proprietà all’acquirente o al legittimatario, attraverso la previa sclassificazione dello stesso. Detti procedimenti sono stati interpretati con rigorosi criteri restrittivi dal giudice della nomofilachia, che ne ha sovente equiparato i caratteri e gli effetti alla sdemanializzazione vera e propria (in tal senso, Cass., sezione seconda, 12 dicembre 1953, n. 3690).
Ed è proprio la differenza tra sclassificazione vera e propria e mutamento di destinazione ad assumere particolare rilevanza nell’ambito del presente giudizio. Infatti, tutte le disposizioni impugnate dal Presidente del Consiglio dei ministri producono l’effetto di sottrarre al patrimonio collettivo vasti appezzamenti di territorio, individuati od individuabili secondo la diversa tecnica normativa impiegata.
3.3.– Con particolare riguardo alla Regione autonoma Sardegna occorre anche ricordare come l’art. 3, lettera n), dello statuto speciale attribuisca alla stessa «[i]n armonia con la Costituzione e i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica», la potestà legislativa in materia di usi civici.
Le norme di attuazione dello statuto regolano, poi, le funzioni della Regione relative ai beni culturali e ambientali, nonché quelle relative alla redazione e all’approvazione dei piani paesaggistici, nell’ambito dei quali è contenuta la disciplina afferente all’utilizzazione dei beni d’uso civico, a sua volta funzionalmente collegata ai caratteri fisici e alla disciplina giuridica di tali beni.
Con la legge reg. n. 12 del 1994, la Regione autonoma Sardegna ha disciplinato in modo generale l’esercizio delle proprie funzioni in tema di usi civici. È significativa la formulazione dell’art. 1 di detta legge, il quale prevede che «Le disposizioni contenute nella presente legge sono intese a: a) disciplinare l’esercizio delle funzioni attribuite alla Regione sarda ai sensi degli articoli 3, lett. n), e 6 dello Statuto speciale per la Sardegna; b) garantire l’esistenza dell’uso civico, conservandone e recuperandone i caratteri specifici e salvaguardando la destinazione a vantaggio della collettività delle terre soggette agli usi civici; c) assicurare la partecipazione diretta dei Comuni alla programmazione ed al controllo dell’uso del territorio, tutelando le esigenze e gli interessi comuni delle popolazioni; d) tutelare la potenzialità produttiva dei suoli, prevedendo anche nuove forme di godimento del territorio purché vantaggiose per la collettività sotto il profilo economico e sociale; e) precisare le attribuzioni degli organi dell’Amministrazione regionale in materia di usi civici».
3.4.– Nelle disposizioni statutarie e di attuazione nonché in quelle introduttive della legge reg. Sardegna n. 12 del 1994 si rinviene un coerente collegamento (che – per quanto si dirà in prosieguo – viene inciso dalle norme impugnate) tra il regime giuridico dei beni civici, gli interessi territoriali della Regione stessa e la tutela paesistico-ambientale affidata alla cura dello Stato.
Questa Corte ha affermato in proposito che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato, aggiungendo che tale titolo di competenza statale «riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di Regioni speciali o di Province autonome, con l’ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia» (sentenza n. 378 del 2007).
Dunque, le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio si impongono al rispetto del legislatore della Regione autonoma Sardegna, anche in considerazione della loro natura di norme di grande riforma economico-sociale e dei limiti posti dallo stesso statuto sardo alla potestà legislativa regionale (sentenze n. 210 del 2014 e n. 51 del 2006).
Detto rispetto comporta, tra l’altro, che la Regione autonoma Sardegna non possa assumere, unilateralmente, decisioni che liberano dal vincolo ambientale porzioni del territorio. Oltre alle ipotesi di mutamento di destinazione, che sostanzialmente rimodellano il vincolo ambientale verso una nuova finalità comunque conforme agli interessi della collettività, devono assolutamente soggiacere al meccanismo concertativo le ipotesi di sclassificazione, che sottraggono in via definitiva il bene alla collettività ed al patrimonio tutelato.
Il principio di favor della conservazione della destinazione pubblica è strettamente legato alla «connessione inestricabile dei profili economici, sociali e ambientali, che configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico […] quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali […]. È la logica che ha ispirato questa Corte quando ha affermato che “la sovrapposizione fra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di ‘una integrazione tra uomo e ambiente naturale’ (sentenza n. 46 del 1995)”» (sentenza n. 210 del 2014).
In definitiva, il modello procedimentale che permette la conciliazione degli interessi in gioco e la coesistenza dei due ambiti di competenza legislativa statale e regionale è quello che prevede la previa istruttoria e il previo coinvolgimento dello Stato nella decisione di sottrarre eventualmente alla pianificazione ambientale beni che, almeno in astratto, ne fanno “naturalmente” parte.
In tale prospettiva, «deve concludersi che per una efficace tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente un intervento successivo alla [sclassificazione dei beni civici]: occorre al contrario garantire che lo Stato possa far valere gli interessi [al mantenimento del bene] concorrendo a verificare se sussistano o meno le condizioni per la loro stessa conservazione, ferme restando le regole nazionali inerenti al loro regime giuridico e alle relative forme di tutela» (ancora sentenza n. 210 del 2014).
4.– Alla luce di quanto precede, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 sono fondate, sia in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sia in riferimento al principio di leale collaborazione.
Tutte le disposizioni impugnate violano, infatti, il principio della copianificazione previsto dall’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, norma di grande riforma economico-sociale (ex plurimis, sentenza n. 210 del 2014). Al riguardo, deve essere condiviso l’assunto dell’Avvocatura generale dello Stato secondo cui l’attività di ricognizione e delimitazione delle aree d’uso civico vincolate ai sensi dell’art. 142 del citato Codice «costituisce uno dei contenuti minimi del piano paesaggistico (art. 143, comma 1, lett. c, del codice) e deve essere svolta congiuntamente dallo Stato e dalla Regione (art. 135 del codice)».
Peraltro, le disposizioni impugnate non si limitano ad esprimere determinazioni unilaterali, ma sono tutte dirette, sia pure con diversa tecnica normativa, a ridurre, attraverso la piena sclassificazione, il patrimonio vincolato.
Certamente la sclassificazione non può, salvo i casi suscettibili di alienazione e legittimazione previsti dalla legge n. 1766 del 1927, servire a sanare indiscriminatamente occupazioni abusive. Né si può fare riferimento alla pregressa cessazione dell’uso per giustificarla. Come è noto, regola generale è la imprescrittibilità del diritto di uso civico (artt. 2 e 9 della legge n. 1766 del 1927) ed è consolidato orientamento del giudice della nomofilachia quello della presunzione di preesistenza dell’uso (ex plurimis, Cass., sezioni unite, 24 febbraio 1982, n. 1150, Cass., sezione seconda, 6 maggio 1980, n. 2986, e Cass., sezione seconda, 20 ottobre 1976, n. 3660). Pertanto, il mancato esercizio dell’uso – magari causato “vi vel clam vel precario” – non può certamente giustificare l’adozione di una sclassificazione indiscriminata ma, nei casi tassativamente previsti, può giustificare una conversione al regime di diritto privato necessariamente onerosa.
Oltre che con la legge n. 1766 del 1927 in materia di usi civici, le disposizioni impugnate appaiono incoerenti anche con i principi espressi dal richiamato art. 1 della legge reg. Sardegna n. 12 del 1994, ispirati alla salvaguardia del patrimonio «conservandone e recuperandone i caratteri specifici e salvaguardando la destinazione a vantaggio della collettività delle terre soggette agli usi civici».
Le norme impugnate sono altresì lesive del principio di leale collaborazione perché sottraggono preventivamente una parte del patrimonio che dovrebbe essere sottoposto alla copianificazione tra Stato e Regione. Dopo la funzionalizzazione di tali beni alla cura del paesaggio e dell’ambiente, il carattere “sclassificante” delle norme regionali – anziché assumere un profilo di marginale riduzione del patrimonio tutelato – viene a costituire un elemento pregiudizievole e condizionante gli indirizzi ed i contenuti della pianificazione.
4.1.– In particolare, per quel che concerne il comma 24 dell’art. 4 della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 – il quale dispone la riapertura dei termini per la richiesta di sclassificazione dei beni da parte dei comuni – è da sottolineare come vi sia una chiara incoerenza tra la sua formulazione e la natura del vincolo paesistico-ambientale, il quale comporta, salvo le tassative eccezioni di legge, la conservazione del bene civico e del suo regime giuridico. Detta incoerenza emerge soprattutto in relazione al carattere generalizzato di una tale procedura ed alla fissazione di termini perentori per la presentazione delle istanze di sclassificazione.
Infatti, i beni d’uso civico sono inalienabili, inusucapibili ed imprescrittibili e la loro sclassificazione, che è finalizzata a sottrarre in via definitiva alla collettività di riferimento il bene, è un evento eccezionale subordinato alle specifiche condizioni di legge, tra le quali mette conto ricordare che le zone oggetto di legittimazione o di alienazione non interrompano la continuità del patrimonio collettivo, pregiudicandone la fruibilità nel suo complesso.
4.2.– Per quanto riguarda il comma 25 dell’art. 4 della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 – il quale prevede che siano oggetto di sclassificazione terreni che «siano stati già adibiti, alla data di entrata in vigore della presente legge, alla localizzazione di insediamenti produttivi nelle aree a ciò destinate all’interno delle delimitazioni dei consorzi industriali» – occorre sottolineare come detta norma, riguardando terreni soggetti a vincolo paesistico-ambientale, costituisca di fatto un allargamento dell’area delle sanatorie edilizie, riservata alle leggi dello Stato.
Pertanto non compete al legislatore regionale estendere il loro campo di applicazione (sull’impossibilità per il legislatore regionale di esercitare tale prerogativa, ex plurimis, sentenze n. 117 del 2015 e n. 196 del 2004). Tra l’altro, questa sostanziale invasione della competenza statale assimila fattispecie che potrebbero essere riconducibili ad ipotesi di condono di diversa natura e di differenziati presupposti (per i caratteri differenziali dei diversi condoni, sentenza n. 117 del 2015).
4.3.– Infine, quanto ai censurati commi 26 e 27 dell’art. 4 della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016, l’individuazione normativa di specifiche particelle catastali comportante la sclassificazione ex lege assume ulteriori connotati di illegittimità collegati all’evidente caratterizzazione delle due fattispecie come leggi provvedimento.
Fermo restando che questa Corte ritiene di per sé non contraria a Costituzione (ex plurimis sentenze n. 346 del 1991 e n. 143 del 1989) la legificazione, anche a livello regionale, di scelte che, di regola, sono compiute dall’amministrazione attiva, è da sottolineare come «[l]a legittimità di questo tipo di leggi, quindi, va accertata […] non tanto riguardo ai motivi della scelta della forma legislativa per un’attività di amministrazione, quanto piuttosto in relazione al suo specifico contenuto» (sentenza n. 492 del 1995).
Le suddette disposizioni incorporano e rendono prive di qualsiasi dialettica l’istruttoria relativa alla valutazione delle fattispecie concrete sulle quali incide la legge sclassificante. Esse infatti si basano, rispettivamente, su un verbale dell’Argea – Servizio territoriale del nuorese – del 15 aprile 2008 (che avrebbe riconosciuto «la perdita della destinazione funzionale originaria di terreni boschivi o pascolativi») e sull’asserita perdita dell’«originaria destinazione d’uso civico». L’assenza di un contraddittorio circa le situazioni in questione finisce per incidere sulle prerogative dello Stato in ordine alla copianificazione, e le pregiudica anche per la sottrazione al contraddittorio con le collettività (ed i relativi membri) intestatarie dei beni d’uso civico. Queste ultime ben avrebbero potuto avere accesso all’istruttoria amministrativa finalizzata all’emissione del provvedimento sclassificante e contribuire alla sua definizione se essa non fosse stata così incorporata nel testo legislativo.
Il comma 27 dell’art. 4 della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016, nel prescrivere che le cessazioni degli usi civici «hanno efficacia dalla data degli atti o provvedimenti ovvero, se precedenti, dalle date indicate negli atti o provvedimenti dalla data in cui è venuta meno la destinazione funzionale degli usi civici», viene concettualmente a collidere con il principio di imprescrittibilità del bene d’uso civico, secondo quanto precedentemente argomentato.
4.4.– In definitiva, le norme censurate sono accomunate da un medesimo errore concettuale di impostazione. Esso consiste nel concepire la sclassificazione dei beni d’uso civico alla stregua del mutamento di destinazione degli stessi che persegue finalità diverse da quelle originarie ma parimenti caratterizzate dalla permanenza dell’interesse generale alla loro nuova destinazione.
Al contrario, la sclassificazione – in quanto finalizzata all’alienazione ed alla legittimazione dei beni civici – non costituisce una scelta pianificatoria del legislatore regionale, bensì un istituto condizionato dalla preesistenza degli indefettibili requisiti di legge in presenza dei quali è possibile l’estinzione della natura pubblica del bene e il suo conseguente assoggettamento ad un pieno regime di diritto privato. Eventi, questi ultimi, che precludono, in radice, la permanenza della destinazione ambientale e – quindi – anche la possibilità della copianificazione.
5.– Anche la questione, sollevata nei confronti dell’art. 8, comma 13, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016 in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., riconducibile alla materia «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» ed in relazione all’art. 31, comma 26, della legge n. 183 del 2011, è fondata.
La norma regionale prevede per i «piccoli comuni sardi» l’esenzione dal regime sanzionatorio correlato al mancato rispetto del patto di stabilità interno per il 2015: «Nel rispetto dei principi di finanza pubblica ed esclusivamente nei casi di violazioni riguardanti il mancato rispetto del patto di stabilità interno per il 2015, ai piccoli comuni sardi non si applicano le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 26, della legge 12 novembre 2011, n. 183 (legge di stabilità 2012), qualora i comuni dimostrino di rientrare dallo sforamento entro l’anno 2016, anche al netto dei ritardi dei trasferimenti regionali, causa ovvero concausa della violazione. La presente disposizione si applica nel territorio regionale in forza della capacità legislativa di cui all’articolo 3 della legge costituzionale n. 3 del 1948 e successive modifiche ed integrazioni».
La richiamata norma interposta, nel prevedere un articolato regime sanzionatorio, non contempla affatto l’eccezione disposta dal legislatore regionale.
Dal confronto tra le due disposizioni risulta che la disposizione regionale impugnata consente invece ad una parte dei «piccoli comuni sardi» di non essere soggetti al relativo regime sanzionatorio derivante dal mancato rispetto del patto di stabilità interno.
Questa Corte ha più volte affermato che la previsione di sanzioni in caso di violazione del patto di stabilità interno afferisce alla materia del coordinamento della finanza pubblica e trova applicazione anche nei confronti delle autonomie speciali (sentenze n. 46 del 2015, n. 54 del 2014, n. 229 del 2011, n. 169 e n. 82 del 2007, n. 417 del 2005, n. 353 e n. 36 del 2004).
Il potere di esonerare i suddetti enti locali dalle richiamate sanzioni non è, al contrario di quanto affermato nella disposizione impugnata, ricompreso nella competenza legislativa prevista dall’art. 3, lettera b), dello statuto della Regione autonoma Sardegna in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», poiché la corretta applicazione del patto di stabilità consegue ai vincoli europei e nazionali dei quali è titolare lo Stato in qualità di «custode della finanza pubblica allargata» (ex plurimis, sentenza n. 107 del 2016) ed, in quanto tale, titolare del potere di prevedere sanzioni nei confronti degli enti territoriali che, attraverso il mancato rispetto dello stesso, pongono in pericolo gli obiettivi di carattere macroeconomico.
La norma impugnata, non riconducibile a competenza legislativa prevista dallo Statuto, è dunque in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. in relazione all’evocata norma interposta, la quale non contempla, a livello nazionale, alcun esonero per la tipologia di enti individuata dal legislatore regionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 e per gli anni 2016-2018 (legge di stabilità 2016)».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2017.