Consiglio di Stato Sez. III n. 2377 del 24 marzo 2025
Ambiente in genere.Ambiente e bonifica

L’ambiente è un bene giuridico oggetto di protezione contro le aggressioni umane, nonché costituzionalmente protetto dagli artt. 9 e 32 Cost. tanto nella dimensione collettiva quanto in quella individuale come diritto soggettivo alla salute e alla salubrità dell’ambiente. Logico corollario è la natura della bonifica di siti inquinati quale attività di interesse pubblico finalizzata alla tutela rafforzata della salute e dell'ambiente. La tutela dell’ambiente è infatti declinata dalle relative disposizioni – specie a seguito della riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione - come oggetto sia di doveri del decisore pubblico circa l’utilizzo del territorio in forme compatibili con la transizione ecologica e con la protezione degli interessi intergenerazionale; sia di doveri dei singoli consociati aventi ad oggetto l’astensione da comportamenti lesivi ed inquinanti 

n domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Roma, Viale Mazzini n. 114/a, presso lo studio legale dell’Avv. Andrea Del Vecchio – Studio legale associato Del Vecchio – Associazione Professionale;
Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale delle Marche (Arpam), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Leonardo Filippucci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Istituto Superiore di Sanità, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

B.Energy S.p.A. Unipersonale, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) n. 694/2021, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Pesaro, della Provincia di Pesaro e Urbino, di Aspes s.p.a., di Marche Multiservizi s.p.a., della Regione Marche, della Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale delle Marche (Arpam) e dell’Istituto Superiore di Sanità;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;

Relatore all'udienza straordinaria del giorno 5 febbraio 2025 il Cons. Giovanni Tulumello e uditi per le parti gli avvocati Alessandro Mantero, Elisabetta Buranello, Federica Mancinelli, Giovanni Cicerchia, Lucilla Di Ianni e Giovanni Bonaccio (su delega dell’avv. Maria Beatrice Riminucci);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. delle Marche, pronunciando sui ricorsi riuniti 116/2017, 221/2017, 350/2017, 402/2018, e 94/2021, e relativi motivi aggiunti, ha parzialmente accolto il ricorso n. 94/2021 e respinto i rimanenti.

L’indicata sentenza è stata impugnata con ricorso in appello dalle società Adriatica Costruzioni s.r.l., anche in qualità di incorporante della Immobiliare Ciemme s.n.c. di Campanelli & C.; Arco Vallato s.r.l. in liquidazione e Edilgruppo s.r.l. in liquidazione.

Si sono costituiti in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Pesaro, la Provincia di Pesaro e Urbino, l’Aspes s.p.a., Marche Multiservizi s.p.a., la Regione Marche, l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale delle Marche (Arpam) e l’Istituto Superiore di Sanità.

Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione all’udienza straordinaria del 5 febbraio 2025.

2. Con cinque ricorsi proposti davanti al T.A.R. delle Marche le società Adriatica Costruzioni, Immobiliare Ciemme S.n.c. di Campanelli & C., Arco Vallato s.r.l. ed Edilgruppo s.r.l. hanno impugnato una serie di provvedimenti concernenti l’attuazione del piano particolareggiato di iniziativa privata denominato P.N. 5.6 “Centro Direzionale Benelli”, relativo ad un compendio immobiliare ricadente in Comune di Pesaro.

La vicenda ruota intorno all’area denominata “ex AMGA” che ospitava fino al 1974 un impianto per la produzione di gas.

Questo terreno, di proprietà comunale, è stato in seguito incluso nel piano particolareggiato del comparto edilizio “Centro Direzionale Benelli” ed infine ceduto in permuta, pro quota indivisa, ad alcune società, tra cui le appellanti, nel 1999.

Le società hanno poi ottenuto il permesso di costruire n. 344/2008 per realizzarvi un intervento di tipo misto direzionale-residenziale e commerciale, con conseguente suddivisione dell’area in due sottocomparti del primo dei quali le appellanti sono comproprietarie.

Sennonché, emersa la contaminazione del sito, la Provincia di Pesaro ne ha imputato la corresponsabilità, determinante l’obbligo di bonifica, alle società anzidette, alla ditta appaltatrice dei lavori di sbancamento e, sia pure in misura affievolita, al Comune di Pesaro “in veste di Ente precedentemente proprietario ed utilizzatore del sito storicamente oggetto di precedenti operazioni di permuta (…) asseverata la mancata completezza di quell'informazione e/o adeguata pubblicizzazione riguardante la sorgente potenziale d'inquinamento (…)”.

3. Come accennato, la sentenza del T.A.R. Marche n. 694/2021, impugnata nel presente giudizio, riuniti i ricorsi, ha respinto i ricorsi nn. 116/2017 R.G., 221/2017 R.G., 350/2017 R.G. e 402/2018 R.G. (e relativi motivi aggiunti), con riguardo a tutte le domande proposte; ed ha accolto, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso n. 94/2021 R.G.

L’indicata sentenza è stata impugnata con ricorso in appello dalle ricorrenti in primo grado, che hanno articolato cinque motivi di gravame.

3.1. Il primo motivo di appello censura i capi della sentenza gravata che hanno respinto i ricorsi di primo grado nn. 116/2017 e 350/2017.

Quanto al ricorso n. 116/2017 (impugnativa dell’apposizione del privilegio), si afferma che tale iscrizione sarebbe avvenuta in violazione degli artt. 244, co. 4, 245, co. 2, e 253, co. 3 T.U. ambiente, ossia in mancanza di un provvedimento motivato che accertasse l’impossibilità di individuare il responsabile dell’inquinamento e di effettuare la rivalsa.

Quanto al ricorso n. 350/2017 (impugnativa del diniego dei provvedimenti chiesti con diffida rivolta alla Provincia di Pesaro e Urbino), si deducono la violazione del principio “chi inquina paga” e l’inerzia contraddittoria dell’Amministrazione che non avrebbe provveduto ad identificare i veri responsabili della contaminazione del sito, pur avendo escluso la responsabilità delle appellanti rispetto all’inquinamento c.d. storico.

Tale accertamento, invero, sarebbe stato fondamentale per quantificare i costi di riparazione e i danni subiti dalle appellanti stesse

3.2. Con il secondo motivo si lamenta che il T.A.R. si sarebbe dovuto pronunciare in merito alla conformità o meno degli impugnati provvedimenti impositivi del privilegio alle previsioni di legge e, in particolare, all’art. 253 T.U. ambiente che prevede l’iscrizione del privilegio nel solo caso di bonifica eseguita d’ufficio dal Comune quale autorità competente e non certo quale responsabile dell’inquinamento del sito come nella fattispecie.

Avendo la Provincia individuato il Comune quale corresponsabile della contaminazione, sia pure limitatamente al c.d. inquinamento repentino conseguito all'attività di scavo prodromica alle costruzioni, la non assimilabilità delle due diverse posizioni rispettivamente di corresponsabile e di autorità esecutrice d’ufficio della bonifica avrebbe reso impossibile iscrivere il privilegio.

Inoltre, la Provincia stessa, una volta determinata la responsabilità in solido del Comune e delle ditte lottizzanti, ha omesso di indagare le cause dell’inquinamento c.d. storico anteriore alla stipula del contratto di permuta del 1999, invero a dire delle appellanti ascrivibile per intero al Comune e alle sue Municipalizzate, ASPES s.p.a. e Marche Multiservizi s.p.a.

A ciò erano finalizzate le diffide cui la Provincia ha dato risposta negativa.

In definitiva, il privilegio sarebbe stato iscritto illegittimamente e, anche ove si ritenessero assimilabili le condizioni di corresponsabile e di autorità esecutrice d'ufficio della bonifica, comunque non risultata accertata la responsabilità dell'inquinamento storico, non causato dalle ditte private per stessa ammissione stessa della Provincia.

Pertanto il ricorso n. 350/2017 avrebbe dovuto essere accolto anche in relazione alla domanda risarcitoria, con ovvie ricadute anche sulla decisione del ricorso n. 116/2017.

Quanto al ricorso n. 221/2017, relativo alla domanda risarcitoria per il mancato inserimento del sito “ex AMGA” nell’anagrafe di quelli da bonificare prima che iniziassero i lavori di scavo autorizzati dal Comune, il Tar avrebbe erroneamente ritenuto che le ditte avessero subito la lesione dell’affidamento nel 1999, quindi al momento della stipula del contratto di permuta.

In realtà, il pregiudizio sarebbe stato sofferto prima del rilascio dei titoli edilizi, avvenuto nel 2008, in forza dei quali sono stati autorizzati i lavori di cui sopra.

Ove il sito fosse stato censito ai sensi dell'art. 17, co. 4, D.M. 471/1999, con iscrizione nel certificato di destinazione urbanistica, e risultante dalla cartografia dello strumento urbanistico, i permessi non avrebbero potuto essere rilasciati.

L’ottenimento dei permessi ha fatto sì che le ditte avviassero in buona fede i lavori e che, all'atto degli scavi, emergesse l'inquinamento.

Inoltre, secondo le appellanti non si può sostenere che tra il 2002, anno della segnalazione del sito da parte del Comune, ed il 2008, Regione e ARPM non fossero nella condizione di censirlo.

Anzi, con la delibera n. 2162 del 17 ottobre 2000 la Giunta Regionale aveva approvato una convenzione tra Regione Marche ed ARPAM per la regolamentazione dello sviluppo delle prime funzioni di supporto tecnico-scientifico in materia di gestione dei rifiuti.

Il disciplinare d’incarico, allegato 3 alla convenzione, prevede per l’appunto che il censimento dei siti potenzialmente contaminati avvenga in conformità al D.M. 185/1989.

Si evince che l'omesso tempestivo censimento regionale ha spinto le ditte ad avviare lavori che, altrimenti, non avrebbero mai iniziato, per cui si sarebbe dovuta accogliere la domanda risarcitoria contro Regione, ARPAM e Provincia, avendo questi soggetti posto in essere una colpevole attività omissiva prima del rilascio dei titoli edilizi.

Sul punto, ad avviso delle appellanti non si può escludere la competenza della Provincia ai sensi degli artt. 14, lett. a) e g), l. 142/1990 (TUEL previgente) e 20 D.lgs. 22/1997, poi attuato dal DM 471/1999, sotto il profilo duplice della tutela dell'ambiente e del territorio, nonché dell'organizzazione dello smaltimento dei rifiuti.

3.3. Il terzo motivo di appello censura i capi della sentenza gravata che hanno respinto il ricorso di primo grado n. 402/2018 ed i motivi aggiunti.

In primo luogo, deducono le appellanti che con il ricorso non si lamentava che la bonifica fosse stata interrotta tout court, ma che fosse stata interrotta per il cambio di destinazione dell’area, non più edificatoria, ma a verde (outdoor).

In secondo luogo, la Relazione e l'Analisi di Rischio dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS) sarebbero stati emessi sulla base del falso presupposto che la valutazione dell’ISS potesse prescindere dalla restituzione del terreno all'uso residenziale.

Il TAR avrebbe dovuto considerare la perizia giurata dell'Ing. Boitani, depositata dalle ricorrenti il 26 febbraio 2021 nella parte in cui recita: “(…) si ritiene che la Variante al Progetto Operativo degli Interventi di Bonifica, basata sulle risultanze dell’Analisi di Rischio sito specifica dell’Istituto Superiore di Sanità del 2018, imponga allo stato attuale una limitazione “ad finem et ultra” di natura sanitaria che rende di fatto impossibile l’edificazione. (…) Dunque, nuovi edifici residenziali sarebbero dichiarati inagibili per mancanza delle condizioni di salubrità: nessuno costruirebbe in un sito ben sapendo di non poter usufruire del bene costruito, per cui indirettamente l’edificazione a fini residenziali è resa impossibile. V'è a dire che tale situazione di inedificabilità di fatto è valida oggi, con lo stato di contaminazione su cui l’Istituto Superiore di Sanità ha fondato la sua analisi di rischio e che la variante progettuale ha di fatto reso definitivo e immutabile. La mancanza di chiari obiettivi di bonifica della falda nella variante progettuale (…) avrebbe dovuto rendere non approvabile la variante stessa”.

Il TAR avrebbe poi erroneamente ritenuto che un nuovo progetto dovesse essere previsto per il fatto che l'inquinamento si estendeva a lotti finitimi.

In verità, durante la bonifica è emerso che l'inquinamento riguardasse terreni adiacenti, ma pur sempre nell'ambito del Sottocomparto 1 e perciò si è provveduto ad effettuare la perizia di variante n. 3, non richiedendosi un nuovo progetto.

Gli atti tecnici dell’I.S.S. avrebbero dovuto essere annullati anziché approvati dalla prima conferenza di servizi e dalla successiva determina comunale giacché violano l’art. 242 T.U. ambiente che impone di eseguire la bonifica di un sito inquinato per ripristinarne l'uso previsto dallo strumento urbanistico, mentre nella fattispecie la destinazione residenziale viene trasformata in quella a verde.

Quanto al secondo atto di motivi aggiunti, verrebbe in rilievo un'illegittimità derivata, visto il nesso di presupposizione tecnica che lega l'Analisi di Rischio dell’I.S.S. ed il nuovo progetto di bonifica approvato dalla seconda conferenza di servizi e dalla determina comunale consequenziale.

Evidente sarebbe l’illegittimità del cambio dell’obiettivo della bonifica a detrimento dell’aspettativa edificatoria delle ricorrenti.

Il TAR sostiene che, ultimata la bonifica ed all’esito dei monitoraggi, la Provincia certificherà ex art. 248 T.U. ambiente il raggiungimento degli obiettivi ed il compendio sarà utilizzabile ai fini edificatori.

Il TAR, ad avviso delle appellanti, non avrebbe però compreso che la bonifica prevista dal progetto originario prevedeva il raggiungimento delle “concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)” sia per il suolo sia per la falda.

Viceversa, ad oggi, non sono più contemplati obiettivi di bonifica per la falda e vengono stimate unicamente le “concentrazioni soglia di rischio (CSR)” per il suolo, dandosi per scontato che la pericolosità della falda stessa permarrà, con conseguente inidoneità del sito a fini residenziali ed idoneità, invece, a verde.

In questo senso, a dispetto di quanto asserito dal Tar, la bonifica “a CSR” per il suolo e non per la falda impedirà sia l’esercizio del potere di verifica da parte della Provincia, sia il futuro utilizzo residenziale dell’area da parte delle appellanti.

Riguardo al terzo atto di motivi aggiunti, si chiarisce che esso non ha alcuna valenza impugnatoria, limitandosi a precisare il petitum risarcitorio contenuto nei secondi motivi aggiunti ed avente ad oggetto i danni derivanti dall’interruzione della bonifica di cui al progetto 2013.

3.4. Con il quarto motivo si censurano i capi della sentenza gravata relativi ai profili risarcitori della vicenda.

Il TAR ha respinto le domande risarcitorie con una motivazione unitaria che riguarda i tre ricorsi n. 221/2017, n. 350/2017 e n. 402/2018.

Nel ricorso n. 116/2017, invece, non viene formulata alcuna domanda risarcitoria, a differenza di quanto ritiene il TAR la cui sentenza sul punto è dunque secondo le appellanti da riformare, vista la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c.

Inoltre, sempre secondo il TAR, vi sarebbe stato un frazionamento del petitum, cumulando le domande risarcitorie in sede civile con quelle in sede amministrativa.

Tale statuizione è contestata dalle appellanti poiché la domanda risarcitoria civile, per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del Comune di Pesaro e delle società ASPES s.p.a. e Marche Multiservizi s.p.a., attiene alla cessione di un terreno inquinato, inidoneo all'edificazione e che avrebbe dovuto essere bonificato prima della cessione stessa.

Al contrario, le domande risarcitorie nei tre ricorsi suindicati investono rispettivamente:

3.4.1. la mancata individuazione, a seguito di diffida, dei responsabili dell’inquinamento storico (ricorso n. 350/2017);

3.4.2. l’omesso censimento dei siti potenzialmente inquinati dopo la segnalazione fatta dal Comune nel 2002 (ricorso n. 221/2017);

3.4.3. l’interruzione inopinata della bonifica nel 2017 (ricorso n. 402/2018, primi e secondi motivi aggiunti).

La diversità delle causae petendi rende secondo le appellanti le singole domande autonome, non producendosi alcuna locupletazione in capo alle ricorrenti poiché, ottenuto il risarcimento per una o più voci, non si potrà ottenere un ristoro ulteriore per la voce già soddisfatta, determinandosi la parziale cessazione della materia del contendere.

Le appellanti precisano, in ogni caso, che mentre nel ricorso n. 402/2018 sono censurati atti del Comune, nel ricorso n. 350/2017 il Comune stesso è convenuto quale mero controinteressato ed infine non è neppure coinvolto dalla domanda risarcitoria del ricorso n. 221/2017.

I ricorsi nn. 350/2017 e 402/2018 avrebbero dovuto essere accolti, essendo i relativi atti impugnati illegittimi per le ragioni già esposte, indi per cui le domande risarcitorie vengono espressamente riproposte ex art. 101, co. 2 c.p.a.

Del pari viene sostenuta la fondatezza della pure riproposta domanda risarcitoria formulata nel ricorso n. 221/2017 nei confronti di Regione Marche, ARPAM e Provincia di Pesaro e Urbino per omissione dell’attività obbligatoria di censimento del sito conseguente alla denuncia del sito stesso come potenzialmente inquinato da parte del Comune ad ARPAM nel 2002.

All’epoca le appellanti erano proprietarie dell’area, quindi avevano un preciso interesse all’espletamento di quest’attività.

Sono quindi riproposte anche le domande risarcitorie non decise dal T.A.R.

3.5. Infine, viene proposta un’istanza di superamento dei limiti dimensionali massimi dell’appello.

4. Su tale istanza osserva il Collegio che il ricorso in appello consta di 64 pagine, pari - computando le esclusioni previste dalla disposizione subito indicata, ed il numero di caratteri - a circa il doppio del limite previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016, n. 167, che, in attuazione dell’articolo 13-ter disp. att. c.p.a., ha stabilito per tale categoria di atti il limite dimensionale di “70.000 caratteri (corrispondenti a circa 35 pagine nel formato di cui all’articolo 8)”.

Tale superamento non risulta oggetto di domanda di deroga antecedente rispetto al deposito dell’atto, ai sensi dei successivi artt. 5 e 6 del richiamato decreto.

In particolare, l’art. 6, comma 2, del citato d.P.C.S. prevede che “A tal fine il ricorrente, principale o incidentale, formula in calce allo schema di ricorso, istanza motivata, sulla quale il Presidente o il magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi”.

Nel caso di specie il deposito del ricorso non è stato invece preceduto dal provvedimento autorizzatorio.

Il Collegio, pur ritenendo – stante la delicatezza delle questioni dedotte e dell’oggetto dei giudizi - di non far conseguire a tale violazione la sanzione dell’inutilizzabilità delle parti da escludere (secondo i criteri di computo del ridetto limite stabiliti dall’art. 4 del medesimo decreto), ai sensi dell’art. 13-ter, comma 5, dell’allegato II al cod. proc. amm.), non può non rilevare come un siffatto superamento della disciplina dei limiti dimensionali - funzionale ad assicurare l’effettiva attuazione nel singolo giudizio dei princìpi di chiarezza e di sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, del codice del processo amministrativo - risulti particolarmente controindicato in una vicenda complessa quale quella concretamente dedotta (fermo restando che laddove siffatta complessità avesse realmente imposto l’esigenza di una esposizione maggiormente elaborata sul piano quantitativo, come ricordato si sarebbe potuto e dovuto correttamente attivare la procedura di cui ai citati artt. 5 e 6 del richiamato d.P.C.S.).

5. I motivi di appello, come sopra chiariti, possono essere oggetto di esame congiunto, in ragione della stretta connessione che li avvince.

Come eccepito da A.S.PE.S. s.p.a., dalla Provincia di Pesaro e Urbino e da Marche Multiservizi s.p.a. l’attuale contenzioso è sovrapponibile a quello già deciso da questo Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n. 1786/2016, a sua volta impugnata con ricorso per revocazione, rigettato con la sentenza n. 5067/2017.

5.1. Dall’esame dei richiamati precedenti, oltre che della sentenza impugnata nel presente giudizio, risulta che le appellanti hanno sostenuto la tesi dell’esistenza nel sito di un inquinamento di carattere “storico”, presente almeno dal 1944 e determinatosi fino al 1974.

Di conseguenza, esse ne erano all’oscuro al momento della permuta e della successiva consegna dell’area, assurgendo ad unico vero responsabile della contaminazione il Comune, prima proprietario e poi detentore dell’area.

Orbene le indicate sentenze hanno ravvisato una colpa in capo alle appellanti le quali, pur prefigurandosi la possibile presenza di sostanze inquinanti nel sottosuolo, non hanno prescritto alcuna cautela ed hanno negato ogni informazione alla ditta materialmente esecutrice dei lavori di sbancamento, favorendo così un intervento che è stato all’origine della contaminazione.

Tanto si ricava in particolare dalla sentenza del Tribunale di Pesaro n. 324/2015, che ha condannato le comproprietarie del sito, “essendo emerso che le società conoscessero “(…) perfettamente le caratteristiche del sito, la precedente destinazione storica e (…) la possibilità che nel sottosuolo fossero presenti scorie della lavorazione del carbon fossile”.

Le sentenze di questo Consiglio di Stato in precedenza richiamate hanno dunque posto in evidenza che, anche ove le ditte comproprietarie si fossero limitate a portare alla luce un inquinamento preesistente, non potrebbero risultare incolpevoli, avendo in ogni caso concorso con i lavori alla diffusione dell'inquinamento nell’area.

Ne è pertanto risultata la corretta applicazione del principio “chi inquina paga” per responsabilità diretta delle appellanti, ossia dovuta ad un comportamento legato da un nesso di causalità diretta con l’evento ed alla presenza dell’elemento soggettivo della colpa, essendo esse ben consapevoli del compimento di un’attività pericolosa ex art. 2050 c.c.

Rilevato che l’inquinamento è stato provocato o diffuso per la rottura delle vasche da parte della ditta appaltatrice ed essendo comprovata la conoscenza della contaminazione del sito in capo alle ditte comproprietarie, a queste ultime non è stata addebitata alcuna responsabilità oggettiva.

Ad ulteriore riprova, mentre la società proprietaria del sottocomparto 2 ha ritenuto di far svolgere una “due diligence” ambientale sul sito, le imprese comproprietarie del sottocomparto 1, invece, hanno avviato i lavori senza tener conto della concreta possibilità di determinare l’evento inquinante.

In definitiva, secondo i richiamati precedenti nessun vizio inficia la legittimità delle determinazioni con le quali la Provincia ha rispettivamente individuato i corresponsabili dell’inquinamento ed imposto loro la bonifica.

5.2. Tanto premesso, osserva il Collegio che al di là del rilievo, in rito, della preclusione da giudicato, essa è dirimente nel senso dell’infondatezza dei primi due motivi di appello, entrambi relativi all’applicazione – in punto di ricognizione del processo causale - del principio “chi inquina paga”, e delle altre questioni oggetto delle richiamate sentenze.

In particolare, la sentenza di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1786/2016, ha accertato la responsabilità diretta delle odierne società appellanti rispetto alla contaminazione del sito, in solido con il Comune, ai sensi dell’art. 2050 c.c., riscontrando tutti gli elementi costitutivi della responsabilità: condotta illecita, colpa e nesso di causalità tra fatto e danno.

5.3. Né vale invocare a sostegno delle proprie tesi, da parte delle appellanti, la sentenza n. 1785/2016 di questo Consiglio di Stato: essa, infatti, ha ritenuto che “la Provincia abbia correttamente individuato una responsabilità nella causazione dell'evento inquinante, sebbene in forma attenuata rispetto alle ditte proprietarie dell'area e all'appaltatrice, anche in capo al Comune di Pesaro in forza delle incomplete informazioni fornite sul sito al momento della cessione dell'area da parte sua alle ditte attuali proprietarie”.

Tale statuizione non si pone tuttavia in relazione di contraddizione – per quanto fin qui argomentato - con la sentenza impugnata nel presente giudizio: si tratta infatti del concorso fra due titoli di responsabilità non incompatibili fra di loro, ma anzi causalmente collegati e complementari nella causazione dell’evento.

6. Altrettanto è a dirsi per il terzo motivo, che concerne nello specifico la bonifica dell’area.

Va anzitutto segnalato il consolidato orientamento sulla funzione degli obblighi di bonifica e di risanamento ambientale di cui agli artt. 239 e ss. T.U. ambiente, volti alla “salvaguardia del bene-ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o di danno” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 26 gennaio 2021, n. 3).

L’ambiente, infatti, è un “bene giuridico (….) oggetto di protezione contro le aggressioni umane” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 22 ottobre 2019, 10), nonché costituzionalmente protetto dagli artt. 9 e 32 Cost. tanto nella dimensione collettiva quanto in quella individuale come diritto soggettivo alla salute e alla salubrità dell’ambiente.

Logico corollario è la natura della bonifica di siti inquinati quale attività di interesse pubblico finalizzata alla tutela rafforzata della salute e dell'ambiente.

La tutela dell’ambiente è infatti declinata dalle relative disposizioni – specie a seguito della riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione - come oggetto sia di doveri del decisore pubblico circa l’utilizzo del territorio in forme compatibili con la transizione ecologica e con la protezione degli interessi intergenerazionale; sia di doveri dei singoli consociati aventi ad oggetto l’astensione da comportamenti lesivi ed inquinanti

La valorizzazione della funzione e della natura della bonifica in sé induce pertanto ad escludere la fondatezza del terzo motivo di appello, incentrato sul fatto che le varianti in corso di bonifica avrebbero pregiudicato l’aspettativa edificatoria delle appellanti.

Una simile aspettativa, ponendosi in chiave antagonista rispetto alle inderogabili esigenze di interesse pubblico sottese ai lavori di bonifica tutt’ora in corso, è del tutto priva di fondamento.

Peraltro, dal menzionato e presupposto decisum del 2016 si desume che, al momento del rilascio del permesso di costruire, le appellanti già potessero colpevolmente prefigurarsi la contaminazione dell’area, il che esclude un legittimo affidamento.

In ogni caso, una volta completata la bonifica con esito positivo certificato dalla Provincia, il compendio sarà utilizzabile ai fini edificatori: il che dimostra come nella vicenda in esame sia stata correttamente operata una ponderazione fra interessi antagonisti, senza un radicale sacrificio di alcuno di essi ma secondo una scansione cronologica legata ad una relazione di propedeuticità, in conformità alla graduazione gerarchica fra gli stessi riveniente da un ordine di priorità logico, positivizzato dalle richiamate disposizioni.

7. Quanto al quarto motivo di appello, lo stesso risulta infondato proprio in conseguenza del rigetto, perché a loro volta infondati, dei motivi di appello appena esaminati, concernenti il profilo della condotta asseritamente non iure e contra ius dell’amministrazione.

Difettando tale presupposto, la sottostante pretesa risarcitoria è priva di fondamento.

Come detto, la citata sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1786/2016, ha accertato la responsabilità diretta delle odierne società appellanti rispetto alla contaminazione del sito, in solido con il Comune, ai sensi dell’art. 2050 c.c., riscontrando tutti gli elementi costitutivi della responsabilità: condotta illecita, colpa e nesso di causalità tra fatto e danno.

La valorizzazione del decisum del 2016, destituendo di fondamento i primi tre motivi di appello, determina il rigetto anche del quarto, non sussistendo ab origine in capo alle appellanti alcun legittimo affidamento incolpevole meritevole di tutela sul piano risarcitorio e non potendo le stesse opporre alcuna aspettativa edificatoria all’inderogabile e prevalente obbligo di bonifica.

In ogni caso, respinte le domande caducatorie (o comunque relative alla pretesa illegittimità dell’agire dell’amministrazione) viene meno per ciò solo la configurabilità della fondatezza della connessa pretesa risarcitoria (e, con essa, la domanda di c.t.u. sul danno: ferma restando la giurisprudenza sulla impossibilità di surrogare con c.t.u. la prova del danno stesso: ex multis, Consiglio di Stato, sentenza n. 5643/2020).

8. In relazione alla domanda risarcitoria, come accennato, le appellanti deducono inoltre che “Nel ricorso n. 116/2017 R.G. non è formulata alcuna domanda risarcitoria, a differenza di quanto ritiene il TAR nella sentenza che sul punto andrà certamente riformata stante la non corrispondenza del preannunciato alla domanda dei ricorrenti (violazione dell’art. 112 c.p.c.)”.

Invero la sentenza così pronuncia: “i ricorsi nn. 116/2017 R.G., 350/2017 R.G. e 402/2018 R.G. (e relativi motivi aggiunti) vanno respinti con riguardo alle domande impugnatorie; - i medesimi ricorsi, unitamente al ricorso n. 221/2017 R.G., vanno altresì respinti per quanto concerne le domande risarcitorie e indennitarie”.

Si tratta chiaramente di un refuso ininfluente ai fini della decisione, posto che la formula omnicomprensiva utilizzata dalla motivazione della sentenza è riferita principalmente alle domande impugnatorie, e fra le stesse è stato correttamente incluso il ricorso in questione: mentre la suggestiva aggiunta relativa alle domande risarcitoria essendo immediatamente successiva ha anch’essa contenuto generale, senza la precisazione della esclusione da tale ultimo inciso del ricorso 116/2017.

Oltre alla natura di mero refuso che non incide sul portato della decisione, e che dunque non configura alcuna violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato (ma al più di pronuncia su di un oggetto inesistente), l’unico interesse teorico che le appellanti potrebbero avere alla riforma della sentenza sarebbe quello legato alla proposizione di una domanda risarcitoria autonoma per danni derivanti dall’esecuzione dei provvedimenti impugnati con il ricorso n. 116/2017.

Ma una simile, ipotetica domanda, oltre che tardiva, rimane preclusa dal rigetto dei motivi di appello concernenti la pretesa caducatoria, dunque tale capo di domanda va respinto per difetto d’interesse (oltre che per l’inesistenza di un vizio avente le caratteristiche di quello dedotto).

9. Il ricorso in appello è pertanto infondato e come tale deve esser respinto.

Il rigetto nel merito esime il Collegio dallo scrutinio delle eccezioni in rito ulteriori rispetto a quelle già esaminate.

Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico della parte appellante, secondo la regola della soccombenza, nei confronti di tutte le parti appellate costituite: ad eccezione dell’Istituto Superiore di sanità, che non ha svolto difese scritte, in relazione al quale sussistono per tale ragione giusti motivi per disporre la compensazione delle spese.

La liquidazione delle spese tiene conto della oggettiva complessità del giudizio (e delle conseguenti difese cui sono state costrette le parti appellate), oltre che del fatto che parte delle domande proposte sono risultate in realtà un tentativo di reintroduzione di precedenti questioni e pretese già coperte da giudicato negativo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanne le appellanti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti delle parti appellate costituite, liquidate in complessivi euro diciottomila/00, oltre accessori come per legge, in ragione di euro tremila/00 oltre accessori per ciascuna delle seguenti parti: Comune di Pesaro, Provincia di Pesaro e Urbino, Aspes S.p.A., Marche Multiservizi Spa, Regione Marche, Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale delle Marche.

Compensa le spese nei confronti dell’Istituto Superiore di sanità.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 febbraio 2025, tenutasi da remoto, con l'intervento dei magistrati:

Fabio Franconiero, Presidente FF

Giovanni Sabbato, Consigliere

Sergio Zeuli, Consigliere

Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore

Annamaria Fasano, Consigliere