Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6301, del 22 dicembre 2014
Ambiente in genere.Cava dismessa, illegittimità divieto di utilizzo dell'impianto di lavorazione degli inerti

Le vicende estintive che riguardano l’attività di cava non pregiudicano l’utilizzazione degli impianti funzionali alla coltivazione ove questi non siano in contrasto con la normativa urbanistica vigente. Nel caso di specie quindi, la chiusura della cava non è idonea a determinare la dismissione di un impianto che si appalesa, alla stregua del titolo edilizio intervenuto, compatibile con la normativa urbanistica. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 06301/2014REG.PROV.COLL.

N. 02487/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2487 del 2014, proposto dalla Società Calcestruzzo San Vincenzo Tre S.r.l., rappresentata e difesa dagli avvocati Carlo Marino, Giuseppe Di Fratta, Vincenzo Iorio, con domicilio eletto presso Luigi Bosco in Roma, viale Bruno Buozzi 99;

contro

La Regione Campania, rappresentata e difesa per legge dall'avv. Angelo Marzocchella, domiciliatario in Roma, Via Poli 29;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA, NAPOLI, Sez. IV n. 3673/2013, resa tra le parti, concernente divieto di accesso alla cava e divieto di utilizzo dell'impianto di lavorazione degli inerti;



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Campania;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 novembre 2014 il Cons. Raffaele Prosperi e uditi per le parti gli avvocati Francesco Vagnucci su delega dell'avv. Carlo Marino e Maria Imparato su delega dell'avv. Angelo Marzocchella;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO e DIRITTO

Con ricorso proposto dinanzi al Tar della Campania, la Calcestruzzo San Vincenzo Tre s.r.l. – d’ora in poi Calcestruzzo – aveva esposto di svolgere esclusivamente attività industriale di produzione di conglomerato bituminoso e cementizio nell’impianto sito in via Pugliano n. 22 nel Comune di S. Salvatore Telesino, mediante lavorazione di materiale cavato in altri siti, ma di non svolgere attività di coltivazione della cava ivi ubicata.

Il complesso industriale in questione, acquistato dalla ricorrente il 17 dicembre 2007 dalla società “Bove Emilio e Figli s.n.c.”, sorgeva su un’area complessivamente estesa 27.200 metri quadrati e si componeva delle seguenti parti: 1) due impianti di produzione di conglomerato cementizio; 2) un impianto di produzione di conglomerato bituminoso, 3) un impianto per la frantumazione di inerti; 4) una pesa; 5) un’officina meccanica; 6) un alloggio del custode; 7) uno spogliatoio, il tutto autorizzato dal Comune di S. Salvatore Telesino con la concessione edilizia n. 50 del 2003, conseguita in zona che nello strumento pianificatorio generale di detto Comune è classificata “Agricola Normale “E1n”.

Con il decreto dirigenziale n. 31 del 5 maggio 2011, il Settore provinciale Genio civile di Benevento vietava all’interessata l’utilizzazione dell’impianto di lavorazione inerti sito nel complesso industriale in questione (riportato sub 3), avendo rilevato che il relativo impianto di frantumazione ricadeva nel perimetro della cava di calcare ivi esistente (particella 64 sub 4 e sub 5 e particella 5 del foglio di mappa 16), per la quale era stata negata l’autorizzazione alla prosecuzione della coltivazione con decreto dirigenziale n. 900 del 9 aprile 2001, emesso a carico della dante causa della ricorrente “F.lli Bove” s.r.l.; tale revocata autorizzazione ricomprendeva anche il titolo abilitativo all’attività di frantumazione, pertinenza della cava, cui la prima era connessa.

Con il successivo decreto dirigenziale n. 52 del 29 giugno 2011 dell’Area generale di coordinamento 5, la Regione Campania, preso atto del provvedimento di inibizione della lavorazione appena descritto, revocava l’autorizzazione alle emissioni in atmosfera per la produzione di calcestruzzo, inerti calcarei e conglomerati bituminosi di cui lo stabilimento era dotato in forza di provvedimento del 17 marzo del 2000.

La “Calcestruzzo san Vincenzo Tre” s.r.l. ha impugnato tali provvedimenti chiedendone l’annullamento, sostenendo con nove motivi la violazione degli articoli 3, 41, 97 e 117 Cost., dell’art. 7 L. 241 del 1990, degli articoli 5 e 19 della L.R. n. 54 del 1985 e della L.R. n. 17 del 1995:

La Regione Campania si è costituita in giudizio, contestando le censure sollevate.

Con sentenza n. 3673 del 15 luglio 2013 il Tar della Campania respingeva il ricorso.

La pronuncia esaminava dapprima i motivi primo, secondo, terzo, quarto e sesto, connessi tra loro per il fatto di censurare tutti i provvedimenti con l’assunto di non avere mai esercitato attività estrattiva, bensì solo attività di produzione di conglomerati bituminosi ed inerti calcarei, tanto da poter sostenere che l’unico titolo necessario e sufficiente per lo svolgimento di tale attività - compresa la fase di frantumazione degli inerti mediante l’apposito frantoio - sarebbe stato costituito dal permesso di costruire ottenuto nell’anno 2003: ciò in quanto che l’art. 19 della L.R. n. 54 del 1985, nel prescrivere lo smantellamento della cava e degli impianti ad essa pertinenti alla conclusione dell’attività estrattiva fa salva la diversa utilizzazione dei fabbricati consentita dagli strumenti urbanistici vigenti.

La sentenza affermava, rifacendosi a propri precedenti, che la presenza di opere serventi l’attività estrattiva nell’ambito delle aree oggetto di autorizzazione regionale rendeva l’area stessa del tutto assimilabile rispetto alle aree su cui si svolgeva l’attività estrattiva propriamente detta, poiché ai sensi dell’art. 5, comma 3 L.R. n. 54 del 1985 l’autorizzazione alla coltivazione ha per oggetto l’intero “complesso estrattivo comprendente la coltivazione della cava o torbiera, le discariche, i connessi impianti di trattamento di materiali ubicati dentro il perimetro della cava o torbiera individuato a norma dell' articolo 8 della presente legge nonché le strade o piste di servizio del complesso estrattivo”, sicché gli impianti industriali per la lavorazione del materiale estratto o le altre opere accessorie, ricomprese nel perimetro autorizzato, devono ritenersi oggetto del medesimo provvedimento favorevole rilasciato per l’attività estrattiva in senso stretto: ciò in quanto tutte queste attività sono strettamente connesse, dopo la conclusione dell’attività, alla medesima ricomposizione ambientale, idrogeologica, paesaggistica ed eventualmente colturale esistente in precedenza.

Non si può in ogni caso sostenere che l’impianto di macinazione e lavorazione di materiali sia stato attivato in epoca successiva alla cessazione della coltivazione della cava e che la materia prima lavorata proviene da giacimenti esterni alla cava di che trattasi.

Nel caso in esame, a parere del giudice di primo grado, gli impianti insistono laddove si trovano i tratti di costone interessati da scavi, come accertabile anche dal confronto con le particelle catastali e doveva allora richiamarsi la necessaria ricomposizione ambientale dell’area di cava poi dismessa; quindi la realizzazione di un assetto dei luoghi ordinato e tendente alla salvaguardia dell' ambiente naturale ed alla conservazione della possibilità di riuso del suolo.

In definitiva, si trattava di un’attività volta a restituire il contesto ambientale interessato dall’attività cavatoria e da quelle ad essa accessorie allo stato precedente all’intervento dell’uomo, in un’ottica per la quale il “consumo di territorio” dovuto all’attività estrattiva di materiali indispensabili al fabbisogno regionale non può essere definitivo e permanente, ma deve essere riparato o, comunque, mitigato.

Perciò l’asportazione o la demolizione degli impianti doveva ritenersi la regola e comunque la permanenza dei manufatti non poteva che raccordarsi alla ricomposizione ambientale e non certamente al proseguimento di un esercizio industriale, visto anche che per il p.r.g. di S. Salvatore Telesino l’area in questione ricade nelle zone “agricola normale E1n”, “agricola a vincolo idrogeologico E2”, “agricola e vincolo paesistico E3”, in cui ai sensi dell’art. 29 delle citate norme di piano sono sì consentite “costruzioni per industrie estrattive e cave”, ma collegate ad “attività comunque direttamente connesse allo sfruttamento in loco di risorse del sottosuolo, sempre che tali attività non provochino particolari problemi di traffico, né alterino zone di interesse panoramico”.

Quindi l’ammissibilità degli impianti in questione poteva collegarsi solo ad un’attività estrattiva condotta in loco e sempre ove la loro presenza non alterasse le condizioni di traffico e panoramiche connesse alla vocazione agricola dei terreni, in coerenza con il già visto dettato legislativo regionale.

Veniva ritenuto infondato anche il quinto motivo, con cui la società in epigrafe assume l’incompetenza dell’Amministrazione regionale ad intervenire con provvedimenti restrittivi e sanzionatori in materia di attività industriale e di rispetto delle previsioni dei piani urbanistici, nonché in materia di sicurezza sul lavoro, competenze attribuite al Comune ed all’Amministrazione sanitaria.

L’oggetto specifico del provvedimento impugnato riguardava il contenuto dell’autorizzazione all’attività estrattiva di cui all’art. 5 della L. R. n. 54\1985, la sua eventuale ultrattività rispetto al termine della coltivazione propriamente detta, e, solo per questo, alla possibilità che sull’area in cui è presente una cava dismessa venisse mantenuto in esercizio un impianto di trasformazione del materiale cavato in altri siti: sussisteva dunque la competenza regionale.

Il Tar rilevava poi l’infondatezza del settimo motivo, secondo il quale non sarebbe stato rispettato il termine assegnato per la produzione di memorie e documenti, pari a 90 giorni: il termine in materia è pari a trenta giorni ai sensi dell’art. 2 L. 241 del 1990 ed i 90 giorni evocati riguardano la conclusione del procedimento.

Ancora, era infondato anche l’ottavo motivo, in cui la Calcestruzzi denunciava l’illegittimità del decreto di revoca dell’autorizzazione all’emissione in atmosfera, che avrebbe travalicato la portata del presupposto provvedimento di interdizione all’uso industriale degli impianti, circoscritto, in tesi, al solo impianto di frantumazione inerti; detto decreto era da ritenersi strettamente conseguente alla necessità di dismissione degli impianti.

Da ultimo, era infondato anche il nono motivo, secondo cui gli atti impugnati sarebbero stati illegittimi in quanto avrebbero interdetto l’accesso alla cava, con violazione del diritto di svolgere attività imprenditoriale costituzionalmente garantito alla ricorrente.

Un’espressa interdizione dell’accesso agli impianti non era contenuta nel dispositivo del provvedimento ed ogni eventuale divieto in tal senso non poteva che essere interpretato come connessione della cessazione dell’attività produttiva che si svolgeva nel sito.

Con appello in Consiglio di Stato notificato il 25 febbraio 2014 la Calcestruzzi San Vincenzo Tre s.r.l. impugnava la sentenza in questione, la quale aveva basato la sua pronuncia sull’obbligo di ricomposizione ambientale scaturente dalla cessazione dell’attività estrattiva e che dunque la presenza degli impianti avrebbe ostacolato tale ricomposizione, potendo questi comunque funzionare autonomamente, mentre l’amministrazione regionale aveva riposto le proprie difese sul principio che l’impianto fosse solo una pertinenza dell’area di cava e che quindi la dismissione di questa impediva l’autorizzazione al funzionamento degli impianti; dunque il giudice di primo grado è andato oltre le difese della Regione. Inoltre la ricomposizione ambientale postula la presentazione di un progetto da valutare e solo conseguentemente a tale valutazione può intervenire la necessità di asportazione degli impianti.

Ma entrando ancor più nel punto centrale del giudizio, l’appellante deduce che le vicende estintive che hanno riguardato l’attività di cava non possono pregiudicare l’utilizzo autonomo degli impianti ove questi non siano in contrasto con la normativa urbanistica; come suffragato da sentenze di questa Sezione, la coltivazione della cava e la lavorazione del materiale estratto non possono essere considerati del tutto connessi e dunque gli impianti funzionali alla coltivazione, ove non in contrasto con la normativa urbanistica vigente, non devono essere dismessi. L’attività dell’appellante ha natura industriale ed è stato regolarmente assentito dal Comune un permesso di costruire due anni dopo il divieto di coltivazione della cava di proprietà dei danti causa. L’area in cui ricadono impianti è classificata come zona agricola normale E1n, ove sono consentite costruzioni per industrie nocive di prima e seconda classe che non possono essere installate nelle zone industriali; dunque gli assunti della sentenza sulla ricomposizione ambientale possono valere solamente per la chiusura delle attività estrattive. Del resto sarebbe allora illogica la previsione normativa per cui gli impianti devono essere asportati o demoliti dopo la cessazione dell’attività autorizzata, fatta salva la facoltà di una diversa utilizzazione consentita degli strumenti urbanistici vigenti: ma nel caso di specie, a fronte di impianti di frantumazione, non si potrebbe individuare una diversa utilizzazione ed è fuorviante differimento delle norme di piano che prevedono la tolleranza per le industrie del tipo di controversia solo se collegate ad estrazioni in loco.

In ogni caso un provvedimento regionale che intervenisse in maniera restrittiva e sanzionatoria in riferimento al controllo dei piani urbanistici comunali e delle norme sulla sicurezza dei lavori sarebbe viziato da incompetenza assoluta, poiché tali incombenze rientrerebbero nelle competenze comunali oppure delle amministrazioni sanitarie.

La Calcestruzzo reiterava le censure concernenti il mancato rispetto dei tempi procedimentali e, singolarmente, il provvedimento dell’Area Ecologia della Regione Campania, emesso in stretto rapporto con il divieto di utilizzare gli impianti di frantumazione; questo ultimo ha inteso bloccare l’intero complesso sulla scorta del primo provvedimento del Genio civile di Benevento, riguardante la sola parte dell’attività di frantumazione: non è comprensibile perché il Genio civile abbia ordinato la cessazione di impianti di frantumazione e a questo punto l’Area Ecologia abbia interdetto l’intera attività, compresa quella stretta produzione del conglomerato bituminoso e cementizio.

L’appellante reiterava ai fini devolutivi i nove motivi sollevati in primo grado e concludeva per l’accoglimento del ricorso con vittoria di spese.

La Regione Campania si è costituita in giudizio, sostenendo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.

All’odierna udienza del 25 novembre 2014 la causa è passata in decisione.

L’appello deve essere accolto, alla stregua di un precedente in termini, definito da questa Sezione con la sentenza 13 aprile 2012 n. 2103, pronuncia che non può che essere ribadita nei suoi esatti termini.

Il Tribunale ha posto a fondamento della decisione di rigetto una parabola motivazionale che, muovendo dalla premessa della qualificazione dei macchinari utilizzati per la frantumazione quali sostanziale pertinenza della cava ai sensi dell’art. 5 L.R. 54\1985, perviene al corollario dell’automatica cessazione dell’utilizzo di tali pertinenze all’atto della dismissione della cava.

La Sezione non reputa meritevole di condivisione la premessa che sorregge la statuizione gravata.

La tesi secondo cui l’impianto di macinazione sarebbe di pertinenza dell’area di cava è, infatti, contraddetta, in prima battuta, da un fondamentale elemento temporale: l’autorizzazione rilasciata alla Calcestruzzo è intervenuta (2003) successivamente alla cessazione dell’attività estrattiva ed alla chiusura della cava (2001).

Si deve quindi rilevare la totale autonomia del titolo autorizzatorio di cui alla concessione edilizia n. 50 del 2003, desunta dal dato cronologico dell’attivazione dell’impianto in epoca successiva alla cessazione della coltivazione della cava e dal dato pacifico della provenienza della materia prima lavorata da giacimenti esterni alla cava di che trattasi.

In definitiva, l’esame congiunto dei profili di autonomia esposti, sul piano dell’ubicazione, del titolo autorizzatorio, del momento di attivazione e della provenienza del materiale lavorato, consente di condividere l’assunto centrale dell’appello, volto a confutare la qualificazione dell’impianto in termini di pertinenza e la correttezza dell’ordine di dismissione in via conseguenziale impartito con l’atto amministrativo impugnato in prime cure.

Si deve poi osservare che a sostegno della ricostruzione dell’appellante assume, in ogni caso, valore decisivo il disposto del comma 3 dell’art. 19 della LR. Campania n. 54/1985, come sostituito dall’art. 15 della L. R. Campania n. 17/1995, ove si stabilisce che anche dopo la cessazione dell’attività autorizzata di cava è “fatta salva la facoltà di una diversa utilizzazione consentita dagli strumenti urbanistici vigenti”. Ne deriva che le vicende estintive che riguardano l’attività di cava non pregiudicano l’utilizzazione degli impianti funzionali alla coltivazione ove questi non siano in contrasto con la normativa urbanistica vigente. Nel caso di specie quindi, la chiusura della cava non è idonea a determinare la dismissione di un impianto che si appalesa, alla stregua del titolo edilizio intervenuto, compatibile con la normativa urbanistica.

L’appello deve, in definitiva, essere accolto.

La particolarità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese dei due gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:

Mario Luigi Torsello, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 22/12/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)