Dalla giacenza al processo. Il perimetro giuridico della messa in riserva

di Oreste PATRONE

Nonostante la disciplina dello stoccaggio sia ormai radicata nell’ordinamento e nella prassi autorizzativa, nel confronto con gli operatori del settore ancora emergono, sia in sede istruttoria che ispettiva, situazioni di incertezza interpretativa e difformità applicativa. 
Il presente contributo si propone di offrire una riflessione su tali aspetti, con l’obiettivo di ricondurli entro un quadro interpretativo esaustivo, coerente con la normativa vigente.

Il nodo principale riguarda la corretta qualificazione delle operazioni di stoccaggio e, in particolare, della messa in riserva [R13] nei casi in cui tale attività non costituisca un fine autonomo ma sia propedeutica a una successiva operazione di recupero. La questione, di evidente rilievo operativo e sanzionatorio, conserva un’attualità non trascurabile e incide direttamente sulla tracciabilità dei flussi e sulla corretta tenuta dei registri di carico e scarico. 
Sotto un ulteriore profilo, la corretta delimitazione delle operazioni di stoccaggio rileva anche ai fini delle garanzie finanziarie. La previsione, per tali operazioni, di importi commisurati alle volumetrie autorizzate impone infatti un’esatta individuazione del perimetro gestionale. In assenza di un parametro certo, l’obbligo di garanzia rischia di perdere la propria funzione di presidio e di copertura dei costi di ripristino, determinando un effetto elusivo non coerente con la ratio di tutela dell’ordinamento.

La messa in riserva di rifiuti è, a tutti gli effetti, un’attività di recupero e in quanto compresa nella definizione di stoccaggio ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. aa), del D.lgs. 152/2006, richiede specifica autorizzazione anche in relazione all’individuazione del sito. La Corte di Cassazione, il 12 settembre 2023, con sentenza n. 37114, ha chiarito che la condotta di gestione non autorizzata integra reato a prescindere dal fatto che il successivo trattamento avvenga nello stesso o in altro impianto: ciò che rileva è la corretta qualificazione e l’esistenza del titolo autorizzativo.

Si consideri, a titolo esemplificativo, un impianto che disponga di aree dedicate allo stoccaggio dei materiali in attesa di lavorazione. Qualora intervenga un controllo, è evidente che il materiale stoccato, non essendo ancora stato sottoposto ad alcun trattamento, non può considerarsi oggetto di un’operazione di recupero completa e dunque conserva la qualifica di rifiuto. Ne discende che la giacenza complessiva riscontrata presso l’impianto deve corrispondere al quantitativo di rifiuto in messa in riserva [R13] risultante dal registro, salvo la quota di materiale che, al momento del controllo, sia effettivamente in corso di lavorazione o destinato immediatamente alla stessa. Solo in tal modo si garantisce la coerenza tra situazione fisica e situazione contabile, assicurando la tracciabilità richiesta dalla norma.

Occorre sottolineare che l’omessa registrazione della messa in riserva R13, con la contestuale imputazione diretta dell’operazione finale di recupero, equivale sul piano operativo a presentare un cumulo in attesa di recupero come astrattamente già recuperato; sul piano giuridico, oltre a compromettere la tracciabilità, ciò può ingenerare il sospetto di condotte fraudolente o evasive da parte dell’azienda, con conseguenti profili sanzionatori e, nei casi più gravi, di responsabilità penale. La prassi corretta è la registrazione in R13 di quanto entrato e posto in giacenza, con successiva rilevazione della singola operazione di recupero al momento in cui il materiale entra effettivamente nel ciclo di trattamento.

Diversa è la fattispecie in cui il materiale giacente sia collocato nelle immediate adiacenze dell’unità impiantistica di trattamento e risulti in fase di alimentazione o in attesa di immediata lavorazione. In questo caso, si può ragionevolmente sostenere che il rifiuto sia già entrato nel processo e, pertanto, non debba essere contabilizzato come messo in riserva, poiché l’operazione R13 si intende superata in favore dell’operazione principale [R3, R5, R12, a seconda della tipologia di processo]. Il discrimine sostanziale risiede, dunque, nell’effettivo avvio del ciclo di lavorazione: se questo è iniziato, il materiale non è più in messa in riserva; se non lo è ancora, la registrazione R13 diventa obbligatoria. Si tratta di una distinzione sottile, ma di primaria rilevanza, poiché consente di stabilire se il materiale sia ancora in una fase di stoccaggio temporaneo o già parte integrante del processo di recupero. 

Il nodo interpretativo ruota, a ben vedere, attorno al concetto di “in attesa di immediata lavorazione”, il quale non può essere inteso in senso aleatorio o indeterminato. La sua sussistenza deve essere desumibile da elementi oggettivi, rilevabili al momento dell’accertamento: la collocazione fisica del materiale nelle adiacenze dell’unità di trattamento, la predisposizione delle linee di alimentazione o di caricamento, la presenza di segnaletica o documentazione interna che ne attesti la destinazione immediata alla lavorazione. 
Tale distinzione, già riconosciuta nella prassi gestionale attraverso il lay-out autorizzato, rappresenta l’elemento oggettivo primario per discernere tra aree di stoccaggio e aree di lavorazione. Anche la documentazione progettuale e gestionale dell’impianto — planimetrie, schede di processo, procedure operative — costituisce un riferimento essenziale per verificare la coerenza tra dichiarazioni e realtà impiantistica.

In tale prospettiva, pur non trattandosi di un parametro pensato a tale scopo, può assumere rilievo orientativo anche il termine di due giorni previsto dall’articolo 190, comma 3, lett. c) del D.lgs. 152/2006 per l’annotazione dei rifiuti presi in carico dall’impianto. Se, infatti, la registrazione deve avvenire entro tale arco temporale, è ragionevole ritenere che il quantitativo di rifiuti “in attesa di immediata lavorazione” non possa eccedere, se non marginalmente, la capacità di trattamento corrispondente a circa due giornate di esercizio. Oltre questo limite, viene meno la condizione di immediatezza e il materiale deve essere considerato a tutti gli effetti giacente in messa in riserva [R13]. 

In assenza di riscontri oggettivi e temporali di questo tipo, la qualificazione del materiale come “in attesa di immediata lavorazione” non può essere ritenuta legittima. Diversamente, si aprirebbe un margine di discrezionalità tale da compromettere la tracciabilità dei flussi e da esporre l’operatore a contestazioni. Ciò non significa, però, che la registrazione debba essere contestuale all’operazione materiale: può avvenire anche in un momento successivo, purché mantenga la data effettiva di lavorazione e la corrispondenza con la situazione fisica riscontrabile in impianto.

Alcune imprese considerano questa impostazione eccessivamente gravosa, poiché comporta l’onere di una doppia registrazione. Tale onere è tuttavia inevitabile e logicamente coerente: diversamente, si produrrebbe l’assurdo contabile e giuridico di ritrovare in giacenza presso l’impianto cumuli di materiale formalmente già recuperato. 

Considerazioni analoghe possono farsi per le operazioni di deposito preliminare [D15] in vista dello smaltimento, ferma restando la distinzione rispetto al deposito temporaneo di cui all’art. 185-bis, che rimane privo di titolo autorizzativo e non può riguardare rifiuti già sottoposti a operazioni di recupero o smaltimento. Anche in questo caso, la discriminante è rappresentata dalla finalità dell’attività: se il deposito ha funzione meramente logistica o di attesa, esso rientra nel D15, se invece integra l’avvio di un trattamento vero e proprio, assume la natura di operazione di smaltimento.

Accanto alle ipotesi più lineari di stoccaggio in attesa di lavorazione, nella prassi gestionale esistono numerose attività che si collocano in una zona di confine tra la messa in riserva [R13] e l’effettivo avvio del trattamento. È qui, in questa sottile striscia contesa tra norma e prassi, che si annidano le sfide interpretative più ambiziose e si rinvengono le soluzioni più ingegnose e interessanti. Si tratta di operazioni che, pur non configurando un recupero autonomo, implicano comunque una forma di manipolazione, movimentazione o preparazione del rifiuto in vista della lavorazione successiva. Tra queste rientrano l’accorpamento di partite aventi lo stesso codice EER, la miscelazione di rifiuti della medesima tipologia merceologica ma diverso codice EER, la separazione di frazioni estranee o di materiali non conformi, la cernita manuale o meccanica volta all’omogeneizzazione del flusso in ingresso. 

La trattazione di ciascuna di queste fattispecie meriterebbe un approfondimento a sé, sia per la varietà delle situazioni operative sia per le differenti implicazioni autorizzative che ne derivano. Non si può tuttavia omettere, in questa sede, di accennare ai principali criteri distintivi che consentono di discernere le attività effettivamente riconducibili alla messa in riserva da quelle che, per natura o finalità, integrano già l’avvio di un trattamento.
    a) accorpamento di partite aventi lo stesso codice EER
Un impianto che riceva conferimenti da più produttori, aventi lo stesso codice EER e analoghe caratteristiche merceologiche, può legittimamente accorpare tali partite in un’unica area di stoccaggio, purché omogenee per natura e destinazione. In questi termini, l’accorpamento costituisce una modalità ordinaria di gestione logistica, non un trattamento. Sostenere il contrario – sino all’ipotesi estrema e irragionevole che ogni singola partita debba restare separata e riconoscibile – significherebbe piegare la disciplina a un formalismo privo di fondamento giuridico e di razionalità gestionale. La tracciabilità non si garantisce mantenendo i cumuli isolati come reliquie amministrative, ma assicurando la corrispondenza tra i flussi reali e le registrazioni, nel rispetto dei limiti autorizzativi e delle caratteristiche del rifiuto.
    b) miscelazione di rifiuti della medesima tipologia merceologica ma diverso codice EER
È certamente la fattispecie più controversa, quella in cui il confine tra la gestione logistica e l’avvio del trattamento si assottiglia maggiormente. 
Proviamo a fare un esempio.
Un impianto riceve carta da raccolta differenziata [EER 200101] e scarti della selezione di carta e cartone destinati al riciclo [EER 030308]. I due flussi dovrebbero essere stoccati separatamente poiché la loro unione, qualificata come autonoma operazione di recupero R12, genererebbe un nuovo rifiuto — sempre a base cellulosica, ma con un codice diverso [EER 191201] — da destinare a ulteriore trattamento.
Questa lettura, ineccepibile sul piano formale, comporta una serie di implicazioni rilevanti sia sul piano operativo sia su quello amministrativo. Oltre all’attribuzione di un nuovo codice EER al rifiuto in uscita dall’operazione preliminare appena descritta, ci sarebbe la necessità di un’autorizzazione esplicita per la stessa [R12] e la verifica di compatibilità del codice derivato col successivo processo R3. 
L’eccepibilità si pone, casomai, sul piano logico. L’unione dei due cumuli, nel momento in cui si prefigge l’obiettivo di migliorare la qualità e l’omogeneità del flusso destinato al recupero di materia, partecipa già alla logica del trattamento [nell’esempio considerato, R3]. Non si tratta più di depositare, ma di predisporre al riutilizzo, e in ciò si compie la prima tappa del percorso di recupero. Si può quindi affermare che, laddove le attività svolte nell’area di messa in riserva non si esauriscano in un deposito passivo, ma integrino fasi operative intrinsecamente connesse al recupero di materia, il processo debba considerarsi già avviato senza la necessità di un passaggio intermedio da qualificare come R12. Diverso è il caso in cui il rifiuto risultante dalla miscelazione sia destinato ad essere avviato a recupero presso un impianto terzo. In tale ipotesi, la fase di miscelazione integra a pieno titolo un’operazione R12, comportando la produzione sul posto di un nuovo rifiuto identificato da un codice EER differente e la necessità di autorizzazione esplicita.
In conclusione, l’attività di recupero inizia nel momento stesso in cui il rifiuto entra in un ciclo funzionale di valorizzazione, anche se ancora all’interno delle aree R13. Pretendere un’autorizzazione ulteriore significherebbe duplicare il titolo per un’attività che, di fatto e di diritto, è già parte integrante del recupero. 
    c) separazione di frazioni estranee o di materiali non conformi, cernita manuale o meccanica rivolta all’omogeneizzazione del flusso in ingresso
Siamo di fronte a un autentico evergreen, una questione che, per quanto analizzata, continua a generare dubbi, interpretazioni e rovesci di prospettiva. Il fatto che la Corte di Cassazione penale sia tornata a pronunciarsi sul tema nel 2023, a oltre trent’anni dalla sua introduzione nell’ordinamento, è il segno che ci troviamo di fronte a un campo dove la certezza giuridica è ancora un orizzonte in movimento. 
Parliamo di attività apparentemente semplici, come la rimozione manuale delle impurità, la selezione meccanica delle componenti non recuperabili o la ricomposizione di un flusso omogeneo, che costituiscono un momento già funzionale al processo di recupero.
Come anticipato in apertura del paragrafo, la giurisprudenza più recente — con una pronuncia ormai divenuta riferimento Cass. Pen. 12/09/2023, n. 37114 — ha chiarito che la messa in riserva, pur formalmente qualificata come operazione preliminare, può comprendere una serie di attività propedeutiche al recupero: dalla cernita manuale o meccanica dei materiali, alla separazione delle frazioni estranee, fino all’omogeneizzazione del flusso in ingresso. Operazioni che, pur non trasformando sostanzialmente il rifiuto, ne consentono la corretta destinazione alle successive fasi di trattamento.
Questa interpretazione, già chiaramente delineata dalla Circolare ministeriale del 20 maggio 1998, trova oggi ulteriore conferma nella giurisprudenza. La messa in riserva può comprendere attività preliminari quali la cernita manuale o meccanica, la separazione delle frazioni spurie e l’omogeneizzazione del flusso in ingresso, purché finalizzate a garantire la corretta destinazione dei rifiuti alle successive fasi di recupero.
A conferma di questa impostazione, non si può omettere di ricordare che gli impianti operanti in procedura semplificata, abilitati alle operazioni di cui ai paragrafi 5.7 e 5.8 dell’Allegato 1, Sub. 1 al D.M. 5 febbraio 1998, possono svolgere, nell’ambito della messa in riserva [R13], una pluralità di lavorazioni meccaniche quali cesoiatura, triturazione, separazione magnetica, vibrovagliatura, separazione densimetrica, nonché asportazione del rivestimento dei cavi, macinazione e granulazione della gomma, della plastica e della frazione metallica ai fini del successivo avvio a recupero [R3 e R4].
Tali attività sono da sempre considerate parte integrante della messa in riserva, non già operazioni di trattamento autonome. In ossequio al principio di tassatività delle operazioni di recupero, forzare la loro qualificazione come R12 significherebbe introdurre una deroga implicita all’impianto regolatorio, riconoscendo di fatto come “trattamento” ciò che la normativa primaria e secondaria collocano espressamente entro il perimetro dello stoccaggio funzionale al recupero.
Dunque, quando la separazione o la cernita sono volte a rendere il flusso conforme alle specifiche del processo di recupero, esse rientrano a pieno titolo nella messa in riserva [R13], senza necessità di distinta autorizzazione in R12. Diversamente, qualora la cernita assuma carattere trasformativo, modificando le caratteristiche del rifiuto e generando un nuovo flusso con codice EER differente, essa si configura come vera e propria operazione di trattamento. A sostegno di questa visione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con una decisione ormai nota agli addetti ai lavori [11 novembre 2021, causa C-315/20], ha chiarito che il cambio di codice EER presuppone una alterazione sostanziale delle caratteristiche del rifiuto, che non può certo derivare da una semplice riorganizzazione o unione di flussi omogenei. Un principio espresso nel contesto delle spedizioni transfrontaliere disciplinate dal Regolamento (CE) n. 1013/2006, ma di portata più ampia, capace di orientare anche le valutazioni interne sulle operazioni di messa in riserva e di recupero.

La messa in riserva si rivela dunque come un concetto dinamico: non già mero deposito inerte, ma fase di preparazione e selezione funzionale al recupero, comprendente operazioni che non determinano il superamento della messa in riserva, ma hanno piuttosto una funzione preparatoria e restano ricomprese in quest’ultima, configurando un’estensione funzionale dello stoccaggio preliminare al trattamento. Potremmo dire, con licenza lirica, che essa è il luogo in cui il rifiuto comincia a riorganizzarsi in vista della propria seconda vita.

È evidente che le già indicate distinzioni, per essere applicate in modo coerente, presuppongono una chiara definizione planimetrica e procedurale delle aree impiantistiche. Il lay-out autorizzato e la documentazione gestionale [schede di processo, diagrammi di flusso, istruzioni operative e, in generale, tutta quella parte di documentazione che costituendo parte integrante dell’autorizzazione ne esplicita il contenuto dispositivo] assumono un ruolo centrale. Essi sono lo strumento che consente di dimostrare, in sede di controllo, se una determinata attività rientri nella fase di stoccaggio o rappresenti già una fase di trattamento. Laddove tale distinzione sia incerta o non documentata, prevale per presunzione il principio di cautela: il rifiuto deve essere considerato in messa in riserva e gestito come tale.

Un esempio emblematico si rinviene negli impianti di recupero energetico [R1], dove la fossa di alimentazione del forno costituisce a tutti gli effetti parte integrante del processo di combustione e, dunque, dell’operazione R1, mentre eventuali cassoni o cumuli [ipotesi improbabile nel caso dell’incenerimento, ma considerata per mera speculazione] collocati nelle aree rappresentano materiale in messa in riserva [R13] in attesa del trasferimento alla linea di alimentazione. 
Il discrimine, anche in questo caso, non è temporale ma funzionale: la transizione da R13 a R1 coincide con l’ingresso del rifiuto nel ciclo energetico, non con il mero spostamento fisico tra un’area e l’altra.

In tali circostanze, l’operazione di messa in riserva può considerarsi superata, poiché il rifiuto è di fatto entrato nel processo di recupero e deve essere contabilizzato come tale, con la corrispondente registrazione dell’operazione principale [R1, R3, R5 o altra pertinente]. La distinzione sostanziale, ancora una volta, è data dal grado di integrazione dell’attività nel ciclo effettivo di recupero o smaltimento: un criterio operativo che consente di preservare la coerenza del sistema autorizzativo e, al tempo stesso, la tracciabilità dei flussi.

Va infine ricordato che queste attività di confine hanno anche un riflesso sulle garanzie finanziarie. Qualora, infatti, l’autorizzazione preveda importi commisurati ai volumi di stoccaggio, la mancata chiara individuazione delle aree e delle operazioni riconducibili alla R13 può comportare una sottostima delle garanzie dovute, eludendo di fatto la funzione di copertura dei costi di ripristino e di smaltimento dei materiali in giacenza. Anche sotto questo profilo, la precisione nella delimitazione delle operazioni assume valore sostanziale e non meramente formale.

In definitiva, la chiave di lettura resta invariata: garantire che la qualificazione dell’attività corrisponda sempre alla sua effettiva funzione nel ciclo produttivo, mantenendo coerenza tra la realtà fisica del rifiuto e il suo stato giuridico. Solo così la tracciabilità cessa di essere un onere per tornare a essere un principio.